di Daniele Moro
È stata una delle campagne elettorali più velenose del dopoguerra non ci sono dubbi. La violenza verbale dei due contendenti (“ti mando in galera”, “sei volgare e misogino”) dei loro sostenitori, americani e stranieri, ha registrato colpi bassi che molti hanno giudicato veramente eccessivi. Che la più grande democrazia del mondo produca e consumi violenza, specialmente a Washington DC, si sa. Che House of cards sembrasse improvvisamente una commedia da educande, no.
Molti ebrei americani hanno considerato gli attacchi di Trump alla comunità musulmana d’America un pessimo segnale. Prima i messicani “stupratori e spacciatori”, poi gli europei che campano da 70 anni a spese del bilancio militare americano, poi l’idea di schedare milioni di cittadini sulle base della appartenenza religiosa hanno risvegliato antichi timori in una comunità, quella ebraica, che ha ancora nella memoria la difficoltà ad essere accettata a pieno titolo. Un candidato che ha messo in dubbio il fatto che il suo predecessore sia nato negli Usa (un modo neppure troppo indiretto per contestarne la legittimità) è stato registrato con apprensione.
Allo stesso tempo Hillary Clinton è stata vista come un potenziale problema per lo Stato di Israele, responsabile, col Presidente Obama, di scelte che dalle Primavere Arabe hanno allargato il solco tra lo Stato ebraico e una Washington in gran parte tifosa dei Fratelli Musulmani – in versione sia egiziana sia in quella, più moderata, ma pur sempre islamica, di Ennahda tunisina -. Una Amministrazione democratica che ha appoggiato l’avventura di Sarkozy che ha portato alla destabilizzazione della Libia di Gheddafi e dei Paesi limitrofi e che ha gestito malissimo la crisi siriana.
Fino alle ultime battute della campagna elettorale, è stato un crescendo di toni sempre più eccessivi, con personaggi come Steve Bannon, l’ultraconservatore, per molti ambiguo rappresentante degli “alt-rights”, i suprematisti bianchi di Breitbart. E i rapporti molto controversi della squadra di Trump con Putin e i suoi amici. Fino all’appoggio del KKK alla candidatura di Trump, un appoggio che il candidato repubblicano si è rifiutato di respingere. E la foto dell’“avida” Hillary, con una stella di Davide accanto, per finire con l’ultimo spot che univa in un complotto mondiale Lloyd Blankfein, a Yanet Hellen e a George Soros. Tutti e tre, guarda caso, ebrei. E a qualcuno sono, come si dice, fischiate le orecchie.
L’elettorato ebraico, in stragrande maggioranza tradizionalmente democratico “a prescindere”, ha votato Clinton molto malvolentieri, secondo gli osservatori più per paura di Trump e i suoi suprematisti bianchi, che per simpatia verso la candidata democratica. Le rassicurazioni del neo-Presidente nei confronti di Israele, le telefonate con Nethanyahu, la presenza in famiglia di un genero ebreo ortodosso, amico d’infanzia del Premier di Israele, ha calmato molte preoccupazioni ma non le ha eliminate. Si arriva quindi al Giorno della Memoria: la Casa Bianca lo ricorda “dimenticandosi” di citare la Shoah, giustificandosi poi in maniera molto ambigua e tardiva, secondo tanti ebrei americani. E ancora, i saluti nazisti in un hotel del centro di Washington a una riunione di fans del Presidente e un numero crescente di minacce e attacchi antisemiti, oltre 300, in questi mesi, negli Usa. Con tombe ebraiche profanate, svastiche e aggressioni e minacce ai Centri Comunitari. Tanto da costringere 97 senatori, democratici e repubblicani a chiedere al Presidente di “sensibilizzare” le Agenzie Federali su un fenomeno che sta crescendo. Una parte dell’America teme che la situazione sia destinata a peggiorare. Qualcuno pensa a un doppio scenario: da una parte la Casa Bianca che si schiera sempre più, inequivocabilmente, con Israele; dall’altra, un Presidente che si allontana dalla Comunità ebraica americana considerata troppo liberal e che considera i diritti civili di tutte le minoranze, a cominciare da quella afro-americana, un proprio successo. Basti ricordare il ruolo determinante che moltissimi ebrei, rabbini, intellettuali, avvocati, hanno giocato contro le discriminazioni razziali di tutti. Una situazione, e su questo sembrano tutti d’accordo, qui a Washington DC, in piena evoluzione.
Daniele Moro, docente alla Johns Hopkins University, è stato caporedattore del TG5 e collaboratore di “Terra!”. Ha vinto nel 2000 il Premio Saint Vincent di giornalismo