“Kosher is better. È il nuovo credo alimentare planetario. Che sta riempiendo i supermercati di tutto il mondo di cibi prodotti secondo i dettami della religione e della tradizione ebraica”.
Inizia così un interessante articolo pubblicato da Repubblica.it il 23 ottobre scorso, a firma di Nicola Niola, che spiega in che cosa consista la cucina kasher degli ebrei e soprattutto come essa stia oggi sta conquistando milioni di consumatori di tutti i Paesi, “che si convertono al pane azzimo e al falafel, alla carne privata del sangue, e perfino al sale certificato kasher, cioè senza alcun additivo”.
Diverse, secondo il quotidiano online, le ragioni di questo boom, nessuna delle quali però religiosa. “La maggior parte dei consumatori, in realtà, dice di preferirli per motivi che si potrebbero definire a metà fra etica e dietetica – continua l’articolo -. Sicurezza alimentare, salubrità, tracciabilità. Per esempio il rigore della shechitah, la legge che regola scrupolosamente le modalità di macellazione e di trasformazione delle carni, aumenta la credibilità dei marchi certificati kasher presso quella fascia sempre più estesa di salutisti e di persone sensibili ai trattamenti-maltrattamenti riservati agli animali”.
Così pure la bedikà e il nikur, cioè le regole rituali che disciplinano il controllo sanitario, il taglio e l’eliminazione dei grassi vietati, esercitano un’attrazione sempre maggiore sui vegetariani e sui vegani che trovano nel doppio marchio Kosher Parve la garanzia che il loro cibo non contiene né carne né latte né i loro derivati.
Ma il decalogo alimentare risalente alla Torah conquista anche i lattofobi, che crescono in tutto il mondo. E che si sentono tutelati dalla regola biblica secondo cui il latte e la carne vanno tenuti rigorosamente separati. “Per cui il paté di tradizione ebraica sarà sicuramente privo di lattosio. Analogamente, i celiaci trovano una soluzione ai loro problemi negli alimenti certificati Kosher Passover, quelli prodotti per la Pesach, la Pasqua ebraica, in cui lieviti, frumento e altri tipi di cereali sono oggetto di prescrizioni e di verifiche particolarmente meticolose, anche per quanto riguarda gli addensanti adoperati. E tutti insieme, questi consumatori, un po’ choosy e un po’ difidenti e comunque in cerca di sicurezza, si sentono garantiti dallo sguardo vigile del rabbino”.
Risultato, la domanda cresce del 15 per cento annuo per un fatturato che solo nel Nord America sfiora i 400 miliardi. Menachem Lubinsky, presidente della potentissima Lubicom Marketing Consulting e fondatore della Kosherfest, la più importante fiera di settore al mondo, sottolinea la straordinaria capacità dei certificatori USA di idelizzare una fascia sempre più ampia di consumatori in larga parte non ebraica.
Uno studio del governo canadese – i cui risultati si trovano sul sito ufficiale www. ats-sea.agr.gc.ca – rivela quali sono le motivazioni che spingono ad acquistare cibi con certificazione religiosa. Il 62 per cento dei consumatori li ritiene di qualità superiore, il 51 per cento pensa che facciano bene alla salute e il 34 per cento li considera più sostenibili.
“Molte scelte sono dettate da una sorta di aggiustamento tra abitudini alimentari e tradizioni confessionali – continua -. Per esempio islamici, avventisti del settimo giorno, induisti, che sarebbero sottomessi a tabù piuttosto simili a quelli ebraici, quando non riescono a trovare prodotti che rispettino in toto la precettistica imposta dal loro credo, ricorrono ai cibi kosher quali approssimazioni dietetiche, equipollenze etiche. Con un compromesso accettabile tra le esigenze del corpo e quelle dell’anima. Ma anche quelle dell’ambiente. Di fatto il modello di sostenibilità scelto dall’Europa attraverso la certificazione dei prodotti biologici finisce per convergere con quello che sta alla base della kasherut. Uno dei comandamenti del decalogo kosher vuole, infatti, che il cibo non contenga nulla che possa risultare dannoso per la salute”.
Il risultato è un affare colossale di cui la giornalista americana Sue Fishkof ha descritto luci e ombre nel libro Kosher Nation. E adesso Elena Toselli ha pubblicato Le diversità convergenti. Guida alle certificazioni alimentari. (Franco Angeli; pp.250, euro 32). Le cifre delle due autrici parlano da sole. Se nel 1977 i prodotti certificati erano 2.000, oggi sono 135.000. E ogni anno vengono immessi sul mercato 8.000 nuovi alimenti a marchio kosher. “E adesso le aziende convenzionali si mettono in coda per fare analizzare i loro prodotti dalle autorità religiose. Le sole che abbiano il potere di certificare che una pasta, un caffè, un filetto, una scatoletta di tonno, una bottiglia di vino sono prodotti come Dio comanda. Lo hanno già fatto marchi italiani come Barilla, Ferrarelle, Olio Sasso, De Cecco, Lazzaroni, Bonomelli e tanti altri. La prima al mondo fu la Procter & Gamble, che nel lontano 1911 ottenne di poter pubblicizzare come kosher il Crisco, un grasso vegetale per pasticceria. E adesso organizzazioni come la potentissima Orthodox Union, la più grande holding di certificazione ebraica del pianeta, dispensa il logo OU come una benedizione”. Impartita da cinquecento rabbini che monitorano quattrocentomila alimenti e seimila fabbriche operanti in ottanta Paesi. Nella sola sede centrale di Broadway, è al lavoro un imponente board rabbinico coadiuvato da una schiera di tecnologi alimentari e analisti del sapore, in uno scenario da film di Woody Allen.