di Paolo Salom
Giugno 2017, un mese importante. In primo luogo perché ricorre il cinquantesimo anniversario della Guerra dei sei giorni. Ma anche perché molte cose si muovono intorno a noi e in Medio Oriente: e ogni volta che mi capita di pensare al flusso inarrestabile degli eventi mi torna alla mente la teoria della “fine della Storia” di Francis Fukuyama (1992). E allora, vi confesso, mi scappa un po’ da ridere. Tuttavia, lo studioso nippo-americano qualche ragione l’aveva. Ma non nei termini da lui tradotti in un corpus di idee, questo sì francamente fuori dalla Storia. Perché lungi dall’aver raggiunto l’apice dell’evoluzione economico-sociale alla fine del Ventesimo secolo, come da lui immaginato all’indomani della caduta del Muro di Berlino, l’umanità continua nella sua rincorsa al futuro, modificando le società con un ritmo che oggi appare addirittura esagerato. Solo una cosa appare immutabile, incastonata nel marmo del senso collettivo che definisce l’Occidente (e non solo).
Questa “cosa” è il pregiudizio nei confronti di Israele (e degli ebrei). Attenzione, non è il vittimismo a sollecitare questo ragionamento. Non voglio raccontarvi dell’ennesimo episodio di aggressione antisemita in questa o in quella metropoli. Vi voglio parlare innanzitutto dello scandalo passato (quasi) sotto silenzio del New York Times, giornale simbolo della parte più progredita del Paese più progredito della nostra civiltà (quotidiano peraltro controllato da un’antica famiglia ebraica), che ha avuto di recente la straordinaria idea di pubblicare un editoriale a firma di Marwan Barghouti.
Forse Barghouti il terrorista palestinese condannato a cinque ergastoli per i suoi efferati assassini di israeliani inermi? Sì, proprio lui, quel piccolo capo popolo che ha subito dopo incitato i detenuti (terroristi come lui) nelle carceri israeliane a uno sciopero della fame, per protestare contro le “condizioni inumane” in cui sono mantenuti (salvo mangiare di nascosto barrette energetiche nella sua cella – nella foto).
Ora, non è tanto l’idea di far scrivere Barghouti a generare indignazione: scelta altamente discutibile, ma lecita nelle nostre società aperte e libere. Ciò che appare addirittura osceno è invece che il suddetto editoriale (dove ovviamente si riversa veleno sullo Stato ebraico) sia stato pubblicato originariamente senza il benché minimo riferimento a ciò che il “leader palestinese” aveva fatto (e da lui mai negato, peraltro) nel corso della sua carriera di terrorista.
Un pluriomicida che firma un editoriale sul giornale più importante del mondo – senza essere identificato come tale – non lo avevamo mai visto. Vero, di fronte alle proteste del governo di Gerusalemme, sul sito del New York Times è poi comparsa una nota chiarificatrice e di scuse. Ma a noi, qui, importa sottolineare un aspetto: per nessun gruppo umano, nessuna comunità, nessuna religione si sarebbe mai osato tanto. Solo se si tratta di Israele, o degli ebrei, viene “automatico” adottare degli schemi mentali che in qualunque altra situazione apparirebbero inaccettabili. Vi riuscireste a immaginare il New York Times che pubblica un articolo a firma di Abu Bakr Al Baghdadi (il capo dell’Isis) senza citare la scia di morte e paura che ha seminato negli anni? Ecco: se si tratta di Israele, gli anticorpi naturali del buon senso rimangono inerti. Perché? In questi giorni di ricorrenze, sono andato a rileggere in archivio gli articoli pubblicati nel giugno 1967: prime pagine dedicate ovviamente alla crisi tra Israele e gli Stati arabi. E, nel riferire i successi dell’esercito israeliano, fiumi di inchiostro che documentano l’odio nei confronti degli ebrei tornati liberi nella propria terra, finalmente capaci di difendersi da soli. Un odio atavico, antico e potente. Portato alla luce del sole senza vergogna dagli arabi. Ma che alberga anche altrove, sempre uguale a se stesso, unico punto fermo di una Storia per il resto fluida e fin troppo veloce: noi non ci stancheremo mai di denunciarlo.