Caro Mosaico
Nell’articolo “In bici per Alyn” si parla della vicenda di una bambina palestinese, rimasta gravemente ferita durante un “omicidio mirato”. Attenzione all’uso delle parole. Un omicidio è una grave
colpa. Il testo andrebbe riscritto dicendo che la povera bimba è rimasta ferita da una scheggia durante un’operazione militare contro un leader della Jihad Islamica a Gaza. L’operazione militare era mirata a prevenire ulteriori attentati terroristici contro la popolazione civile israeliana e a combattere il lancio di razzi contro Sderot ed altri centri abitati del sud di Israele. Nessun omicidio, dunque. La parola
giusta è un’altra: guerra.
La guerra non è fatta soltanto di bombardamenti di postazioni militari, soprattutto quando un conflitto è asimmetrico, come Furio Colombo definisce quello israelo-palestinese. Un razzo sparato contro un’auto per eliminare un terrorista pericoloso può salvare molte vite, anche se comporta il rischio sempre calcolato e minimizzato da parte di Israele – di colpire vittime innocenti tra i passanti.
Non si tratta di condannare o assolvere, oppure di individuare la “strategia” più efficace per combattere il proprio nemico in certe circostanze, che non si fa scrupoli nel farsi scudo dei civili e di mandare i propri bambini, magari appena rientrati dal campeggio estivo di indottrinamento all’odio ed alla guerriglia di Hamas, a recuperare le piattaforme di lancio dei razzi Kassam.
Si tratta piuttosto di usare un linguaggio appropriato, per non lasciare spazio all’interpretazione o deviare il giudizio del lettore. L’articolo parla di “omicidi mirati” riferendosi ad operazioni
militari rivolte contro un “uomo”, aggiungo io, pericoloso.
L’omicidio è un atto da condannare, sempre. Quindi se non condanniamo “questo” omicidio vuol dire che la parola “omicidio” non e’ adatta.
Su un altro piano, ma sempre riconducibile alla scelta ponderata delle parole usate per raccontare un fatto, potrei mettere in discussione la scelta della parola “uomo” per definire l’oggetto
dell’operazione militare. È vero, era un uomo. Forse anche padre di famiglia. Magari anche invalido. Come lo era anche il capo spirituale di Hamas, Ahmed Yassin, un povero vecchietto su una sedia a rotelle. Definendolo con queste parole, il fatto che incitasse all’odio e a dare una base teologica all’eliminazione del nemico sionista con tutti i mezzi, senza distinzione di età, divisa, religione, luogo, passa immediatamente in secondo piano. Le parole che usiamo sono parte del messaggio che vogliamo trasmettere. Chi era costui? Un terrorista? Un assassino? Oppure un signore al volante della propria auto?