di Angelo Pezzana
Dal 1948 – anno della proclamazione dello Stato di Israele – fino al 1993 – l’anno in cui la S.Sede ne riconobbe ufficialmente l’esistenza –, erano trascorsi 45 anni, un’attesa che il Vaticano spiegò con la tradizionale lentezza con la quale la diplomazia oltre Tevere affronta quelli che suole definire ‘casi delicati’. Dopo 2.000 anni di anti-giudaismo, che potremmo riassumere sinteticamente con persecuzione del popolo ebraico, il richiamo alla lentezza ha giocato bene la sua parte. La storia è però andata diversamente. Il Vaticano, fra tutti gli stati occidentali e democratici, è stato l’unico ad essersi schierato dalla parte di Saddam Hussein, quando nel 1990 invase il Kuwait. Nel 1993, nella coalizione promossa dall’Onu e guidata dagli Stati Uniti per liberare l’emirato invaso brutalmente, erano presenti anche alcuni stati musulmani, primo fra tutti l’Arabia Saudita, che nei piani del dittatore iracheno avrebbe dovuto essere la successiva conquista. Ma il Vaticano scelse di schierarsi con l’aggressore, ritenendo probabile una vittoria di Saddam Hussein. La sua sconfitta significò per la S. Sede un isolamento a livello internazionale, come uscirne un problema la cui soluzione sembrava impossibile. Un suggerimento di provenienza statunitense indicò una possibile via: riconoscere Israele. Un gesto che avrebbe trovato ottima accoglienza alla Casa Bianca, allora su posizioni diverse da quelle odierne e che avrebbe facilitato il re-inserimento del Vaticano fra gli stati del mondo civilizzato. Così avvenne. Fu quindi la necessità e non la virtù a spingere la S. Sede a riconoscere lo Stato degli ebrei, una scelta che –probabilmente- avrebbe continuato a rinviare con la solita giustificazione. Sul riconoscimento si potrebbe poi disquisire a lungo, tante sono le remore ancora esistenti nell’accettare una piena sovranità di Israele. Sulla politica estera della S. Sede si possono avere molte opinioni, ma raramente è stata messa sotto accusa la pratica della lentezza, anzi, la si è sempre giudicata saggia e anche fondativa della lunga durata della Chiesa cattolica.
Ma è poi così vero? Oppure l’avere atteso 45 anni per riconoscere Israele ed averlo fatto in circostanze così drammatiche non fa sorgere il dubbio – o la certezza- che questa decantata lentezza non valga per tutti? La risposta ce l’ha data la recente vicenda del riconoscimento dello Stato di Palestina, il 16 maggio scorso, che ha visto la S. Sede fra gli stati più solerti a certificarne l’esistenza, come fu tra i primi a riconoscere nel 1964 la nascita dell’OLP, che aveva ancora nel proprio statuto la distruzione di Israele. Vale però la pena andare ad un altro episodio, ricordando quanto avvenne il 25 gennaio 1904, quando Theodor Herzl si recò in visita da Papa Pio X, per perorare la causa della ricostituzione di uno stato per gli ebrei. La sua risposta fu lapidaria “gli ebrei non hanno riconosciuto il figlio di Dio, quindi noi non possiamo riconoscere un popolo ebraico. Se gli ebrei vogliono stabilirsi in Palestina, la chiesa provvederà affinchè vi siano preti sufficienti per poterli battezzare“.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma la sollecitudine con la quale Papa Francesco ha ricevuto Abu Mazen come se fosse già un capo di stato, chiamandolo ‘angelo della pace’, cancella in modo definitivo quella prassi che serviva a spiegare come la Chiesa, prima di prendere qualsiasi decisione, dovesse sottostare a tempi lunghi. Una regola valida se applicata per gli ebrei, ma da dimenticare se si tratta di riconoscere uno stato che neppure esiste.