Yerushalaim: una città bianca, plurale e polifonica

Opinioni

di Ester Moscati

In questo luogo pieno di contrasti tutto è diverso, particolare, più intenso. Una riflessione di Haim Baharier

 

Haim Baharier
Haim Baharier

“Non ricordo come le scarpe mi siano scivolate via dai piedi; non ricordo come io sia caduto a terra e come abbia baciato, ripetutamente, questa terra e le pietre sotto di me; non ricordo neanche come le lacrime che mi sgorgavano dagli occhi siano diventate torrenti. Si infrangevano come onde nel mio petto e il temporale tuonava dentro di me. Non ho potuto, e nemmeno ho provato, a controllarmi o a fermare la fontana delle lacrime. Singhiozzavo e piangevo come un bimbo”.
Nel 1896 lo scrittore Mordechai Ben Hillel HaCohen così descrive il suo primo incontro con il Kotel, a Gerusalemme. Il Muro Occidentale, quello che il Talmud indica come “la direzione del cuore” per colui che di notte, nel deserto, vuole pregare ma non sa dove sia Gerusalemme, fa parte della “Geografia estremamente emotiva” della città che ha nelle sue mura il Beth Hamikdash.
Sono le suggestioni che Haim Baharier, ermeneuta e filosofo, condivide con il pubblico dell’Umanitaria in occasione di Yom Hazmauth, il 7 maggio, a 69 anni dalla fondazione di Israele e a 50 anni dalla liberazione di Gerusalemme.

 

Jews_at_Western_Wall_by_Felix_Bonfils,_1870s
«Amo parlare di Yerushalaim – dice – mi sembra il nome più corretto. Ricordo il mio maestro Emmanuel Lèvinas. Aveva fatto una lezione che nessuno si aspettava su Gerusalemme, l’unica e l’universale. C’erano israeliani, francesi, americani… Nonostante il titolo che aveva scelto, Lèvinas fece lezione sulle “città rifugio” e su un passo del Talmud che non parlava affatto di Yerushalaim. Ma alla fine lesse solo un paragrafo: “ciò che è promesso a Gerusalemme è una umanità della Torà, una umanità nuova, migliore di qualsiasi santuario”. Queste furono le parole conclusive del grande maestro, sul ruolo di Yerushalaim nella storia di Israele in quanto popolo, dell’identità di Israele anche oggi: “Una umanità migliore di qualsiasi santuario”. Lèvinas non si riferiva al Beth Hamikdash, ma al santuario come è inteso dal senso comune, relativo alla Santità. Mi sentivo molto in comunione con lui».
«Non sono in grado – dice ancora Baharier – di raccontare la storia di Yerushalaim, né politica né di santità. Se devo parlare di una emozione particolare a Yerushalaim… Un venerdì sera, quando è scattata l’ora dello Shabbat, ho udito la sirena e sono rimasto impietrito. Che idea. Una sirena per annunciare l’entrata dello Shabbat. La stessa sirena che preavvisa un attacco, un bombardamento. L’avevo completamente dimenticata. Ho sentito questa “voce” e mi sono immaginato le sirene in Polonia quando gli aerei tedeschi sono arrivati il primo giorno e hanno segnato la fine dei 4/5 degli ebrei d’Europa. La fine. E ho avuto la stessa impressione e mi sono detto: mi aiuterà Yerushalaim a convertire quello che porto dentro di me? Io sono del 1947 e non l’ho sentita, la sirena che annunciava i bombardamenti sulla Polonia, ma ce l’ho ancora in mente e risuona ancora e mi sono detto: sarà che ha vinto lo Shabbat? Si usa la stessa simbologia per annunciare la libertà degli uomini, che è possibile grazie al “ritiro di Dio” nel Suo Shabbat. Sarà questa l’equazione di equivalenza? È difficile dirlo».
Come è difficile del resto stabilire la qualità di universale e unica allo stesso tempo, in rapporto a Yerushalaim.
“La città ha una persona morale del più alto rango. La città è l’illustre ereditaria di titoli nobilissimi e che aggiunge, al possesso dei più belli e più nobili ricordi, la coscienza di una missione spirituale permanente”. Si tratta di Gerusalemme? No, è Parigi, e questi sono versi di Paul Valéry. E dunque? Concentrarsi sui valori “universali” può far perdere di vista l’unicità di cui Yerushalaim è portatrice», dice Baharier.
«Si può parlare negli stessi termini di Parigi, Yerushalaim, Roma… Ma si pone un problema: che cercando di uscire dal particolare, si cerca di risvegliare qualcosa che risuoni nel senso comune. Israele è uno Stato come gli altri, Yerushalaim è universale e unica, come Parigi, Atene Roma… Dobbiamo pensare allora – continua Baharier – all’amore che portiamo a Israele, Eretz HaKodesh, la terra di Santità, e sappiamo che la Santità nella tradizione ebraica non ha nulla a che vedere con quello che nelle religioni viene definito “santità”, e che non ci sono Santi, che la santità si applica a tutto fuorché all’uomo, perché “siate santi” vuol dire “distinti” e non altro». Quindi bisognerà stare attenti agli aggettivi che vogliamo abbinare all’oggetto del nostro amore. A Yerushalaim. Rischiamo, nel voler condividere gli affetti, di parlarne come di qualsiasi luogo, di un oggetto di studio.
«Citando ancora Lèvinas, invece, Yerushalaim merita una “Umanità della Torà”, cioè come la concepisce la Torà e questo è estremamente specifico.
È tutto diverso a Yerushalaim. Nei cimiteri per esempio non esiste corteo funebre, non si fanno discorsi ai funerali. Per un grande Rav, le uniche parole pronunciate sono state “è stato un buon ebreo” e basta. Nei cimiteri di Yerushalaim si toglie il corpo dalla bara e si seppellisce con la faccia verso terra. Yerushalaim è Città distinta, rispetto a tutte le altre città del mondo e di Israele, sia per la morte sia per la vita. La mezuzá si pone, in tutto il mondo, inclinata sullo stipite delle porte, perché si rispetta l’etimo del suo nome, movimento (zaz); a Yerushalaim invece, la mezuzà è messa dritta, come a dire: qui siamo arrivati, qui rimaniamo.
Quello dell’ebreo “errante” è un mito cristiano, perverso, che evoca l’enigma dell’antisemitismo. Una delle soluzioni all’enigma è stata l’idea del cammino, della fuga. Ma alla base c’è un odio inspiegabile, che si formula in un modo inspiegabile.
Quando Moshé si presentò al popolo, in Mitzraim, non disse “mettiamoci in cammino”. Disse “andiamo verso la terra donata, Canahan”. “Andare verso”, ma non con un cammino eterno, quanto con una destinazione».
Il rapporto con Yerushalaim è emblematico del rapporto con Israele.
«Siamo reduci da millenni di peregrinazioni. Siccome la nostra stessa identità è complessa, il rapporto è complesso». Essere “dentro” la complessità (vivere in Israele) non fa rendere pienamente conto di quanto questo rapporto sia complesso.
Yerushalaim non è Israele? È pericoloso dire questo.
Nel 1929 lo scrittore ebreo di origine russa Joseph Kessel va in Palestina e dice “l’entità sionista potrà conquistare tutto il territorio, tutto l’antico Israele, ma non Gerusalemme perché è universale”. Eccoci davanti al problema. Il suo “carattere universale”, il voler affascinare, conquistare tutti, condividere i cuori, rischia di allontanare Yerushalaim da Eretz Israel.
Ma dove andremo a trovare parole per Yerushalaim? 565 volte si parla nel Tanach di Yerushalaim. Ma che cosa è Yerushalaim? È un rapporto profondo nell’inconscio di ciascuno di noi. Il più grande cabalista del XX secolo, Rav Ashlag, consultato da Ben Gurion sulla Dichiarazione di Indipendenza, disse che avrebbe dovuto esserci l’accoglienza per tutti a Gerusalemme, senza distinzione. Rav Ashlag chiama Yerushalaim “la città bianca” perché vi è un tavolo “mistico”, immenso, shabbatico, coperto dalla candida tovaglia della festa; lì è seduto uno dei due Signori di Yerushalaim, il Signore creatore, e tutto il posto libero è per il “collega”, la vocazione universale di Yerushalaim. Che non toglie nulla alla sua unicità».