167973, il viaggio di Roberto

Personaggi e Storie

di Chiara Ines Maria Gelmetti

L’hai vista anche tu? Hai letto?
Sì, in piazza Garibaldi, sul secondo rigo. L’hanno messa da poco, prima non l’avevo notata…
Ma quando?
Non interrompere… poco tempo fa comunque, c’erano le rosole, mi pare…
La lapide? No, non ricordo il giorno
Ma siete sicuri?
C’è il suo nome, Bachi Roberto A. 14
Sì, c’è il suo nome.
Roberto?!

In piazza Garibaldi, tra le tante, una lapide datata 15 maggio 1995 colpisce gli ex compagni di scuola – qui sopra immaginati in un dialogo a tre voci – di quella quarta elementare ravennate frequentata da Roberto Bachi nell’anno scolastico 1937-38.

Sono loro che si sono mossi per primi, organizzando una manifestazione in memoria dopo aver scoperto il suo nome nell’elenco degli ebrei ricordati nel cinquantesimo della Liberazione e collocando, sostenuti da Giorgio Gaudenzi, direttore didattico della Scuola Mordani di Ravenna, una lapide com-memorativa nell’atrio della scuola, lapide nella quale viene riportata anche l’encomiabile pagella di Roberto.

Milano 1943 il giorno prima di Sant’Ambrogio, muta la Scala bombardata quell’agosto e ancora addormentata la città, mentre si muove all’alba, dal binario 21, il primo dei ventitré convogli che si susseguiranno fino al gennaio 1945: il quattordicenne Roberto Bachi parte.

Parte d’inverno, sul primo dei treni merci milanesi diretti ai lager, stipato in un vagone bestiame dopo due mesi di carcere a San Vittore, arrestato insieme al padre Armando, generale dell’esercito italiano, servitore fedele e pluridecorato di uno Stato che ha perso guerra e coscienza…, partono divisi, destinazione ignota, costo del biglietto 2 Pfenning, equivalenti ad un biglietto di terza classe. Il padre morirà al suo arrivo, o poco dopo, nella camera a gas del famigerato campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e, probabilmente nell’autunno del 1944, suo figlio Roberto cesserà di vivere, forse colpito da tubercolosi, ad Auschwitz-Monowitz, vittime entrambi della Shoah.

Roberto Bachi, figlio di Armando Bachi e Ines Bassani, nasce a Torino il 12 marzo 1929. Arrivato a Ravenna nel 1937, a seguito del trasferimento del padre che da capo di stato maggiore del comando d’armata di Torino assume il comando della divisione di fanteria Rubicone, frequenta la quarta classe elementare presso la scuola elementare ravennate Mordani nell’anno scolastico ’37-’38.

Come ci racconta la ricostruzione di Liliana Picciotto[1] la famiglia Bachi abitò a Ravenna, a palazzo Guiccioli, per un solo anno; poi il padre venne trasferito a Piacenza, dispensato dal servizio il primo gennaio del 1939 e posto in congedo assoluto con uno stipendio di 14 mila lire annue contro le 36 mila lire percepite fino a quel momento. Roberto, che non poté più frequentare la scuola proibita dalle leggi razziali del ’38-’39, si trasferì con la famiglia a Parma, dove la madre aveva alcuni parenti. Il 10 ottobre 1943 padre e figlio vennero arrestati dai tedeschi a Torrechiara e della madre resta l’angosciosa testimonianza sull’arresto dei suoi cari in una lettera scritta ad un’amica ravennate e riportata da Gregorio Carovita nel volume Ebrei in Romagna: “Corsi alla stazione e vidi il treno già lontano, svenni sul marciapiede, non li vidi più, non seppi più nulla di loro”.

Così leggiamo anche sulla scheda di Roberto Bachi, curata dal Centro di Documentazione Ebraica alla voce “Persone” e sottovoce “Persecuzione”[2]:

Roberto Bachi, figlio di Armando Bachi e Ines Bassani è nato in Italia a Torino il 12 marzo 1929. Arrestato a Torrechiara (Parma). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.

luogo di arresto: Torrechiara                                  data di arresto: 17/10/1943

luogo di detenzione: MILANO carcere                   luogo di raccolta: MILANO carcere

destino: Morto/a in campo di sterminio                     numero di convoglio: convoglio n.05

MILANO carcere 06/12/1943

data di partenza del convoglio: 06/12/1943

data di arrivo del convoglio: 11/12/1943

campo di destinazione: Auschwitz

numero di matricola: 167973.”

E ci si chiede nuovamente: può esistere ancora poesia dopo Auschwitz?[3] Dopo il pungente aforisma di Adorno che inizialmente ne aveva negato la possibilità e che nel 1966, rettificando il suo pensiero, scriveva: “Il dolore incessante ha altrettanto diritto di esprimersi quanto il torturato di urlare; perciò forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere poesie”, noi, oggi, tuttavia, ce lo chiediamo ancora, ce lo continuiamo a chiedere…

Ágnes Heller, filosofa di recente scomparsa, rinchiusa a quindici anni nel ghetto di Budapest e scampata allo sterminio (suo padre fu una delle vittime di Auschwitz), se lo chiede in un bellissimo articolo “Scrivere dopo la Shoah”, apparso su Lettera internazionale nel 1995[4] (stesso anno della posa della lapide in Piazza Garibaldi…) e la sua risposta è inevitabilmente dialettica: “No, non si può scrivere niente su Auschwitz. Ma sì, è possibile scrivere qualcosa su tutti i silenzi che circondano Auschwitz: i silenzi della colpa, della vergogna, dell’orrore e dell’insensatezza.”

Scrivere, dar voce a questi silenzi dunque, perché ricordare è un atto dovuto a chi non ha sepoltura, il solo mezzo di restituire umanità, dignità a coloro ai quali fu tolto il nome. E proprio in occasione del Premio Adorno conferitole nel 2012, Judith Butler precisa: “Anche il solo pronunciare un nome può costituire la forma più straordinaria di riconoscimento, specialmente quando si è diventati dei senza-nome, quando il proprio nome è stato sostituito da un numero, o ancora quando non si è degni di essere chiamati in nessun modo.”[5]

A questi silenzi rispondono le voci dei compagni di Roberto, della Scuola Mordani, delle Istituzioni e del Teatro Dante Alighieri di Ravenna che, in coproduzione col Teatro Luciano Pavarotti di Modena e la Fondazione I Teatri di Piacenza, commissiona al compositore e pianista pesarese Paolo Marzocchi “Il Viaggio di Roberto. Un treno verso Auschwitz”, azione scenica musicale in un atto su testo di Guido Barbieri.

 

Da “Il Viaggio di Roberto”, Teatro Dante Alighieri, Ravenna, archivio Paolo Marzocchi

 

Ed è a Paolo Marzocchi, direttore oltre che compositore di quest’opera andata in scena per la prima volta il 7 dicembre 2014 al Teatro Dante Alighieri e direttore artistico di WunderKammer Orchestra di Pesaro[6], che rivolgo alcune domande.

Come nasce quest’opera: “Il Viaggio di Roberto?”

Ci sono quattro amici, compagni di scuola, uno di loro è ebreo e nel 1938 Roberto Bachi un bel giorno scompare… i tre bambini non comprendono e pian piano dimenticano. Più di settant’anni dopo, i tre compagni ultraottantenni scoprono che il loro quarto amico era stato deportato ad Auschwitz. Uno dei tre, Silvano Rosetti, probabilmente il suo compagno di banco, aveva ancora a casa una letterina che Roberto gli aveva inviato quando era stato malato. Altri ricordi di scuola, conservati fortunatamente dalla madre in una scatola di latta, riaffiorano, e così la memoria… A questo punto i tre amici vanno dal Sindaco, dal formidabile preside della scuola media di Ravenna, Giorgio Gaudenzi, da poco scomparso, e quest’ultimo fa moltissimo… e mette in moto una serie di iniziative per ricordare Roberto.

Così vengo chiamato da Ravenna Manifestazioni che mi chiede di comporre un’opera su di lui e penso subito a Guido Barbieri, uno dei maggiori conoscitori della Shoah italiana e gli chiedo di scrivere il libretto e, riflettendoci insieme al regista Alessio Pizzech, decidiamo di raccontare solo il viaggio, quello di cui si sa meno in assoluto, e dopo circa un anno andiamo in scena.

Come avete lavorato attorno alla figura di questo ragazzo, ricordato dai suoi compagni ancora bambino?

Roberto sparisce, infatti, all’età di 9 anni e viene deportato a 14 anni. Non riuscivo a mettergli in bocca alcuna parola e dunque Roberto non canta, è un mimo che sta seduto all’interno di un vagone. C’è però un personaggio finzionale, Vittorio, sopravvissuto all’olocausto, che rievoca questi momenti all’interno del vagone, prendendo spunto dalle varie testimonianze raccolte.

Poi abbiamo la madre, Ines, che per tutta la vita ha cercato informazioni su questo figlio e che, come Vittorio, si muove fuori dal vagone, sul proscenio; e inoltre c’è la dimensione del sogno, alla quale abbiamo immaginato avesse potuto ricorrere Roberto per sopravvivere nel vagone: i suoi eroi dei romanzi d’avventura d’adolescente, il padre, la maestra e “Il sogno di Butterfly”, film di Carmine Garrone del 1939, interpretato dalla cantante ungherese Maria Cebotari che potrebbe, forse, avere visto col padre…

Roberto parte in inverno, fa freddo e aumenterà il freddo nei campi di ghiaccio dei senza nome. L’esperienza di quel freddo violento è percepibile ancora oggi per chi vada a visitare un campo di sterminio in inverno.

Il temo dell’inverno appare, infatti, in quest’opera e la meteorologia diventa simbolica. C’è anche un interludio, una canzone francese natalizia, Voici la Noël, una sorta di winterreise, una delle pochissime canzoni di Natale, non religiose, scritta in minore e questa melodia mi suonava in testa e l’ho fatta poi eseguire da un coro di bambini, i suoi compagni di scuola, che cantano senza essere mai visibili.

E il sul tema derivante dal numero di matricola di Roberto? Questa ghematria musicale?

Premetto che in musica questa procedura viene usata da secoli, non è un’idea originalissima… Con la trasposizione del numero di matricola in note ho ottenuto una sequenza che per me è Roberto. Benché sia un’operazione aleatoria, casuale, in questo caso la sequenza ha una cantabilità inaspettata, e sempre, per caso, contiene cinque toni interi che stanno lungo la sequenza degli armonici naturali, che ho usato in maniera estensiva nei momenti in cui le “apparizioni” irrompono nel vagone.

Tra varie altre “memorie” presenti nella partitura, c’è poi anche un riferimento musicale al corale di Bach Es ist genug (“È abbastanza”), corale con uno strano incipit (di toni interi, come nella sequenza del numero di matricola), che Alban Berg utilizza per il suo concerto per violino dedicato a Manon, figlia di Alma Mahler e Walter Gropius, che si intitola “Alla memoria di un angelo” e che uscirà postumo, quasi un suo requiem. Nella scena dell’apparizione di Lady Marianna, con le parole del testo originale di Salgari, la sequenza di toni interi del finale (“Ti amerò per sempre”) si trasforma nel corale di Bach, che cantano i bambini dal loggione. Nella mia partitura c’è quindi la citazione di Bach filtrato da Berg, e dedicato alla morte di un giovane, come in un gioco di specchi.

Com’è stato lavorare insieme sulla memoria?

È stato un lavoro di grandissima intensità e di emozione a volte insostenibile, come il momento in cui stavamo provando la scena di un ragazzino ricoverato in ospedale che legge la lettera di Roberto, mentre quest’ultimo, dentro il vagone, immagina questa scena. Avevo notato che in un palco c’era un signore che aveva seguito le prove. Finite le prove era sparito. Poi mi presentano Silvano Rosetti, subito dopo la Prima, e ci ho messo un po’ a capire che era quel bambino che, dal palco, aveva assistito alla prova di se stesso… ed è stato quello, un momento molto intenso, borgesiano…

la memoria recuperata si ottiene nella narrazione che quella stessa memoria si accinge a fare…

e l’opera, infatti, è stata poi dedicata ai tre compagni di classe: Danilo Naglia, Silvano Rosetti e Sergio Squarzina.

È stata poi ripresa a Modena, a Piacenza e nel 2017 a Firenze al Goldoni e ancora a Ravenna, Ferrara e al Regio di Parma

Manca dunque Milano….

L’opera si apre infatti con una voce fuori scena, che canta una canzoncina lombarda “Si la vien giù dalle montagne”, la voce di chi è fuori, libero di andare dove vuole, mentre dal binario 21 il treno parte…

“Il viaggio di Roberto” esiste in tre versioni: una cameristica per 10 elementi, una per un ensemble un po’ più grande e quella per piccola orchestra (circa 30 elementi).

Ci sono poi due cantanti (mezzosoprano e baritono), due voci recitanti (Vittorio e la madre), una voce di bambino (l’apparizione di Silvano) e un quartetto di madrigalisti che danno voce ai pensieri di Roberto e, come un coro greco, un coro di voci bianche. La durata è di un’ora e 45 minuti senza soluzione di continuità, 12 quadri più un prologo ed epilogo.

È un’opera sulla memoria e un’opera di memorie, anche musicali. C’è anche un Va’ pensiero. Nel libro Ultimo treno, uscito nel 2014 e che racconta le testimonianze degli italiani tornati a casa, in uno dei racconti c’è anche questo ricordo: pare che dentro un treno avessero cominciato a cantare il famoso coro del Nabucco, dapprima piano e poi quasi in un urlo… nell’opera che ho scritto questo canto diventa, invece, un mormorio…

 

Uscendo dallo studio del Maestro Marzocchi, mi raggiunge il mormorio del mare, di quell’ Adriatico che ben conosco, poco lontana appare la stazione. E si scheggia, il pensiero di quella linea ferroviaria che ho percorso moltissime volte, da Milano al Montefeltro, perché non posso fare a meno di notare che è quasi sempre dai binari 20-22 che partono e tornano i treni adriatici. Anche questa volta, il mio, arriva al binario 21, casualmente in anticipo. Ho il tempo di camminare quasi al limite del marciapiede 22. Sistemata sulla destra un’altra lapide, per questa stessa storia…

“Vorrei che rifletteste su cosa avreste fatto se aveste vissuto in quel periodo. Come sareste riusciti a conservare la vostra individualità, la vostra umanità, sia come vittime che come carnefici? Qual è quella cosa speciale, dentro di voi, a cui vi sareste aggrappati? Come avreste fatto a non farvi manipolare dal male? Vorrei credere che quando vi capiterà di scegliere tra l’umanità e il male sappiate cosa scegliere. E sono situazioni che vi capiteranno sempre, a partire dalla scuola, in ogni momento della vostra vita. Dovrete sapere che parte prendere.” (da un’intervista a David Grossman)[7]

 

Per leggere, ascoltare e vedere su Il Viaggio di Roberto:

https://www.raiplay.it/video/2019/01/Il-viaggio-di-Roberto-972e9ce8-12b1-4de1-8a2e-6785e0b1297a.html

http://www.paolomarzocchi.it/composizioni/il-viaggio-di-roberto/

 

[1] Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, Mursia Editore, Milano, 1995.

[2] http://digital-library.cdec.it/cdec-web/persone/detail/person-675/bachi-roberto.html, fonti: Liliana Picciotto, idem; ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Ed. 2002: altri nomi ritrovati, Milano: Mursia, 2002, pp. 77-80, pp. 66-71.

[3] Theodor L.W. Adorno, “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica”, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 326.

[4] file:///C:/Users/pre/Desktop/heller_43-44.pdf

[5] Judith Butler, A chi spetta una buona vita, a cura di Nicola Perugini, Nottetempo srl, Roma, 2013.

[6] WunderKammer Orchestra, sensibile fin dalla sua fondazione ai temi umanitari, ha voluto inaugurare la sua attività musicale performativa e didattica sull’isola di Lampedusa nell’aprile 2017 con il progetto “Un pianoforte per Lampedusa”, v. https://www.wunderkammerorchestra.com/

[7] Comune e II Circolo didattico di Ravenna, Una storia per non dimenticare, a cura di Rita Lugaresi, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2012, p. 53.