Il 29 novembre 1947 è stata una data storica del ‘900: in quel giorno l’assemblea generale dell’Onu votò per la terza e ultima volta la risoluzione 181 sulla spartizione della ex Palestina mandataria britannica. In quel freddo pomeriggio di novembre fuori dal palazzo grigio di Flushing Meadow, nel Queens, New York, una folla di persone era radunata ad attendere il risultato del voto; nel resto del mondo, migliaia di persone erano incollate alla radio a seguire la cronaca in diretta dei lavori.
E così tutti a contare, uno dopo l’altro, i “si”, “no”, “astenuto”… Per essere approvata infatti la risoluzione doveva ottenere due terzi dei voti a favore – e per ben due volte, a settembre, non li aveva ottenuti. Perciò quell’ennesima conta parve interminabile. A presiedere l’assemblea il brasiliano Oswaldo Aranha, accanto a lui il segretario generale dell’Assemblea, il norvegese Trygve Lie.
Quando fu il turno della Francia, i nervi erano a fior di pelle: il suo voto era il più atteso ed incerto. Tutti si aspettavano un’ennesima astensione. Così quando giunse il suo “si”, i sionisti seduti nella galleria della sala, esplosero in un grandioso applauso di sollievo e gioia. Il presidente richiamò l’ordine, ricorda David Horowitz, delegato sionista all’assemblea, e allora “l’emozione divenne quasi un dolore fisico”. Era il momento del verdetto finale: 33 si, 10 no, 9 astenuti. La mozione era passata. In quel momento ricorda ancora Horowitz “sentimmo battere le ali della storia su di noi”. La gioia esplose dentro la sala, per le strade di New York e per quelle di mezzo mondo. A Gerusalemme Golda Meir si rivolse alla folla dal balcone del palazzo dell’Agenzia ebraica e disse: “Per duemila anni abbiamo aspettato la nostra liberazione. Ora che è qui è così grande e meravigliosa che va oltre le parole umane. Ebrei, gridò, Mazel tov! ”
I rappresentanti degli stati arabi furono scioccati da quel risultato: i delegati di Siria, Libano, Iraq, Arabia Saudita, Yemen ed Egitto, scrisse poi il segretario generale TrygveLie, “si alzarono e uscirono dalla sala dell’Assemblea.”
L’alto Comitato Arabo trasmise subito al segretario generale Lie un comunicato con cui informava che gli arabi di Palestina “non accetteranno mai alcuna potenza che li costringa a rispettare la spartizione”. L’unico modo per dare corso alla spartizione, si leggeva, sarebbe stato quello di cancellare tutti quanti loro – uomini, donne e bambini.
I chierici del seminario islamico Al-Azhar del Cairo invocarono a loro volta un “jihad mondiale in difesa della Palestina araba”, scrive ancora Horowitz,
La mattina dopo in Palestina esplosero i primi colpi in quella che sarebbe poi stata la Guerra di Indipendenza di Israele o, per il mondo arabo, “Nakba” – la catastrofe.
Oggi, 29 novembre, a 65 anni da quella storica data, la Palestina si trova ad attendere dalle Nazioni Unite un nuovo voto, quello che dovrebbe sancire il suo ingresso all’ONU come Stato non membro osservatore.
La portata del voto di oggi è senza dubbio minore di quella di 65 anni fa, non solo per lo status che i palestinesi acquisterebbero, ma anche per le dimensioni dello Stato che verrebbe loro riconosciuto – inferiore a quello rifiutato nel 1947.
Lo stesso Abu Mazen ha ammesso l’anno scorso in un’intervista alla TV israeliana, che il rifiuto del 1947 fu “un errore”.
La Francia, il cui voto nel 1947 fu determinante per Israele, oggi, lo ha già annunciato, voterà a favore della Palestina. Lo stesso faranno Russia, Danimarca e Norvegia. La Germania è schierata sul fronte del no, mentre sul voto italiano, come su quello inglese, regna ancora l’incertezza. Ciò che è evidente e certo è che l’Europa unita di oggi si presenterà a questo appuntamento ancora una volta priva di una idea di politica estera e quindi di un voto comune.