30 novembre, giorno in ricordo dell’esodo dai Paesi arabi e Iran. Gerbi: «Vi racconto come sono uscito dal trauma»

Personaggi e Storie

di Michael Soncin
Dieci anni fa il Parlamento israeliano ha deliberato l’istituzione della Giornata in ricordo degli ebrei cacciati dagli Stati arabi e dall’Iran, fissandola al 30 novembre. Tra il 1948 e il 1970 800.000 ebrei furono costretti ad abbandonare i loro paesi in Nord Africa, Medio Oriente e nella regione del Golfo, dove erano radicati da secoli e in alcuni casi da millenni, per via di persecuzioni e pogrom antiebraici. In decine di migliaia, tra 1979 e 1980, lasciarono anche l’Iran del nuovo corso degli ayatollah.

 

È come un tunnel dentro il quale si può ricadere, ma da cui guarire è possibile. Questo è il trauma. Bene lo può dire David Gerbi, uno delle migliaia di profughi ebrei dai paesi arabi che in seguito al pogrom che nel 2023 ha sconvolto Israele, ha rivissuto quel trauma lontano. Lo choc è tornato a bussare violentemente alle porte della coscienza malgrado Gerbi ne fosse uscito vincitore, riuscendo a sconfiggere gli incubi della notte che l’hanno perseguitato per anni. «Case bruciate, uomini, donne e bambini massacrati, donne incinte sventrate. 193 furono i morti e tra questi i miei parenti. Esattamente come il 7 ottobre in Israele», ricorda Gerbi.

Psicologo e Analista Junghiano, “esperto dei sogni”, membro della New Israeli Jungian Association NIJA e membro onorario del Laboratorio Italiano di Ricerche di Psicologia Analitica LIRPA, ha raccontato la sua esperienza in occasione del convegno alla Fondazione Einaudi: Dal 7 Ottobre 2023 ad oggi. La civiltà violata – trauma e guarigione. Un tema di riflessione per chi, come Gerbi, è stato vittima del trauma, ma che vittima non vuol più essere.

Il 7 ottobre ha risvegliato in lei un trauma lontano. La sua è una storia lunga e travagliata. Da dove iniziamo?
Io sono uno dei più di 800.000 ebrei profughi del Nord Africa e del Medio Oriente: Siria, Libano, Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria, Yemen, Afghanistan, Iran, Iraq e Libia. Cittadini ebrei di seconda classe, costretti a fuggire per salvarsi la vita. Sono arrivato a Roma nel 1967 come profugo libico, grato all’Italia che ha accolto la nostra comunità di 5000 ebrei profughi libici.

Sono numeri impressionanti. La gente conosce l’indicibile tragedia della Shoah, ma questo buio capitolo sono davvero in pochi a conoscerlo.
Noi siamo i profughi dimenticati. Nessuno è sceso nelle piazze o nelle università per difenderci. Noi, profughi ebrei, non abbiamo ricevuto sostegno né sussidi da nessuna organizzazione delle Nazioni Unite a differenza dei profughi palestinesi per i quali è stata creata appositamente l’UNRWA. Oggi sono cittadino italiano, sono cresciuto in un clima di libertà e democrazia. Ho lavorato dall’età di 12 anni e studiato per diventare psicoanalista e finalmente curare anche il mio personale trauma di profugo.

Poi è arrivato il 7 ottobre 2023. Come ha vissuto quel momento?
Quando, in questi mesi, ho visto e risentito in Italia – come nelle strade di Tripoli nel 1967 – manifestanti violenti e arabi urlare con lo stesso odio “Edbah El jahud” sgozziamo gli ebrei… Mi sono arrabbiato. Come è possibile che io debba di nuovo essere testimone e vittima dell’odio arabo in un paese democratico in Italia? Improvvisamente il mio trauma dormiente della rivolta antiebraica vissuta all’età di dodici anni in Libia si è risvegliato. Pensavo che ormai la sofferenza di persecuzioni, guerre e paure, non mi avrebbe più toccato. Mi sbagliavo.

C’è un ricordo preciso che vuole raccontare?
È il 5 giugno 1967, è scoppiata la guerra tra Israele e paesi arabi. Risento le urla della massa inferocita che passa sotto casa mia. Rivedo i volti dei miei genitori, rassicuranti verso noi bambini ma pieni di angoscia, paura, impotenza e fede in D-o. Siamo nascosti, in silenzio assoluto per non farci scoprire. Sei figli e i genitori, soli, persiane chiuse, caldo soffocante, pochissimo cibo, 40 giorni e 40 notti. Rivivo il terrore di essere uccisi, come purtroppo è successo a molti ebrei che non hanno fatto in tempo a rincasare prima del pogrom. Mi ritornano le immagini di case e negozi di ebrei incendiati. Ho sempre davanti agli occhi la scena del fumo che riempiva le strade che vedevo attraverso le tapparelle e l’odore soffocante del palazzo in fiamme di fronte casa nostra.

Quel fumo di cui parla è tornato alla sua memoria, anche in un’altra occasione della storia, prima del 7 ottobre.
L’11 settembre 2001 alla vista delle Torri gemelle di New York avvolte dal fumo, mi sono sentito mancare: il fumo mi aveva ricordato quello delle case incendiate di fronte casa mia nel 1967. Non potevo più permettermi di tacere, così è nato il mio libro Costruttori di Pace. Storia di un ebreo profugo dalla Libia.

Com’è poi finita in Libia?
Dopo giorni di interminabile ansia e incertezza ci fu concessa la salvezza: una fuga veloce, con una valigia e 20 sterline a famiglia. Abbiamo dovuto lasciare la nostra Patria, i nostri beni, i nostri cimiteri, profanati in seguito dalla costruzione di autostrade. Quei cimiteri dove sono sepolte anche le vittime dei pogrom del 1945, 1948, 1967.

 

Trovare una risposta al “perché” di queste terribili esperienze è quasi impossibile. Lei l’ha trovata?
Di fronte al 7 ottobre, ho trovato una risposta nel canto di Pesach che ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto: Veisheamda. “In ogni generazione vi è chi si innalza contro di noi per distruggerci e D-o ci salva sempre dalle loro mani”. Grazie alla promessa che D-o ha fatto ad Abramo.

Rompere il silenzio è stato qualcosa che si è rilevato d’aiuto per lei. Un sentiero per uscire dal trauma, rialzandosi ad ogni caduta – perché ricadere si può – ma sempre più forte.
Io ho deciso di dire basta al ruolo di vittima. L’ho deciso dopo aver rivissuto per la prima volta il mio trauma. Purtroppo, le vittime di guerre e persecuzioni sono bloccate dal trauma, non reagiscono perché sono paralizzate dalla paura. Io ho fatto i conti con l’eredità del mio doloroso passato per trovare delle risposte… perché come ha detto Jung: “si supera solo ciò che si attraversa”.
Possiamo voltare le spalle a ciò che abbiamo ereditato, oppure possiamo affrontarlo, nella speranza di andare avanti e impedire che quel trauma venga trasmesso e infligga dolore alle generazioni future. Bisogna quindi parlare, testimoniare. Tirare fuori il trauma che è dentro di noi e non soffocarlo. È così che esce e si sconfigge.

Come contestualizza le violenze antisemite contro i tifosi israeliani avvenuti ad Amsterdam?
Questi episodi, come le proteste che abbiamo appena visto a Milano, che applaudivano gli arabi responsabili delle aggressioni in Olanda, si verificano spesso perché ci sono degli abitanti di origine palestinese che incitano, che uniscono gli altri gruppi. Sono molto bravi in questo. L’importante è che anche noi ci facciamo sentire. Non dobbiamo tacere.

Lei crede che si arriverà mai alla pace?
Io sono per la pace. Sono un “Bonè Shalom”, un “costruttore di pace”. Ritengo importante lasciare sempre la porta aperta al dialogo, al rispetto delle diverse etnie, religioni e identità, soprattutto in funzione delle future generazioni. A chi vuole la coesistenza pacifica rispondo come disse Ben Gurion: “chi non crede nei miracoli non è realista”. Ci auguriamo tutti la fine delle ostilità, la fine delle sofferenze e la ripresa del cammino diplomatico in vista di una convivenza pacifica e fruttuosa tra due Stati, lo Stato d’Israele e la Palestina. Quella che oggi sembra un’utopia, domani potrebbe essere realtà. Concludo con una massima dei nostri saggi scritta nella Torà: “Chi è la persona più potente? Colui che trasforma il nemico in amico”. Shalom! Salam!

 

I PROFUGHI EBREI DEI PAESI ARABI

Dal 2014, ogni 30 novembre, Israele commemora gli oltre 850.000 ebrei che furono cacciati dagli Stati arabi e dall’Iran durante il XX secolo. Lo stesso David Gerbi si è speso più volte nel corso dei vari eventi per ricordare tutti i profughi cacciati dai loro paesi nativi, per la sola colpa di essere ebrei. Sua la volontà di ricordare questa giornata presso le istituzioni in Italia e in Europa, in particolare per colmare una lacuna della storia conosciuta da pochi. Proprio sull’Italia ha detto: «Conviene all’Italia non mettere in risalto e non assumersi le responsabilità che c’è stata la Shoah in Libia? Perché là i fascisti hanno portato gli ebrei di Bengasi e li hanno fatti morire nel campo di concentramento di Giado, li hanno mandati a Bergen-Belsen, li hanno mandati ad Auschwitz e alla fine sono morti in Libia 712 ebrei». Sarà forse per questo motivo che si parla poco di questa giornata in Italia? Del resto, come sottolinea la storica Ilaria Pavan, anche nel testo che istituisce il Giorno della Memoria ci sono delle omissioni, come l’assenza della parola fascismo. Una mancanza voluta che non ha bisogno di tante spiegazioni.