di Marina Garsony
Gli piaceva molto venire in Italia, negli anni era diventata quasi una consuetudine. «Da voi si vive bene, siete un Paese pacifico, non avete la guerra. E questa è una grande cosa», ci disse nel corso di un’intervista nel 2008. Lo si poteva incontrare al Salone del Libro di Torino, così come al Festivaletteratura di Mantova, a Ca’ Foscari a Venezia oppure a Milano, dove veniva per presentare il suo ultimo romanzo o partecipare a eventi organizzati in suo onore. A volte arrivava da solo, a volte accompagnato dalla moglie Ika, psicanalista specializzata in psicologia clinica, mancata nel 2016 dopo un matrimonio durato oltre i cinquant’anni. Ed è proprio nel Nord Italia che Abraham B. Yehoshua ambienta il suo ultimo libro La figlia unica – pubblicato nei Supercoralli Einaudi, tradotto da Alessandra Shomroni – in cui lo scrittore, drammaturgo e accademico israeliano tra i più letti e tradotti al mondo, solleva temi a lui cari quali l’identità e l’appartenenza; temi universali e di un’attualità stupefacente in un mondo globale sempre più ibrido e contaminato, dove la crescente mobilità, le massicce immigrazioni e il configurarsi di nuove realtà comportano profonde trasformazioni individuali, familiari, culturali e sociali. In ebraico è uscito poco tempo fa il suo ultimo libro intitolato Ha-miqdash ha-shlishi (“Il terzo tempio”), ancora inedito in Italia e di cui su queste pagine ha ampiamente parlato Cyril Aslanov (Bet Magazine, giugno 2022, pag. 9).
Nel giorno della sua morte, avvenuta lo scorso 14 giugno a Tel Aviv all’età di 85 anni, non si contano gli articoli, i messaggi e i post di cordoglio per ricordare l’autore di romanzi di successo come L’amante, Un divorzio tardivo, Fuoco amico, Il Tunnel, Viaggio alla fine del millennio e Il signor Mani, per citarne alcuni; lo scrittore più volte candidato al Nobel che ha fatto parte di quella ristretta élite culturale israeliana che si sta sempre più assottigliando, quella dei Grossman, di Oz e di Appelfeld – questi ultimi due scomparsi nel 2018 – che in questi decenni ci hanno consegnato una tra le letterature contemporanee più vibranti e vitali, capaci di esprimere la realtà multiforme israeliana.
In particolare lui, Yehoshua – non a caso definito l’“autorevole simbolo della complessità ebraica” – ha sempre letto con lucidità la società del suo Paese, cercando una soluzione pacifica per il conflitto arabo-israeliano e opponendosi alla colonizzazione dei territori della Cisgiordania conquistati da Israele nel 1967. Ha quindi sostenuto la soluzione dei due Stati, per poi arrivare alla conclusione «che noi israeliani e i palestinesi, non potendo far altro, stiamo procedendo verso un unico Stato e abbiamo quindi l’urgente bisogno di trovare un’identità comune che ci aiuti a rinsaldare la nostra coesistenza […]. Se potessimo quindi, nonostante tutte le nostre divergenze, accettare un’identità con un denominatore comune, storico e geografico, questa contribuirebbe notevolmente a una futura, possibile convivenza».
Una posizione, la sua, che ha riacceso ciclicamente la querelle fra i proponenti di una soluzione “Stato unico”, “Stato binazionale” o “Due popoli-due-Stati” e non ha mai smesso di accendere gli animi facendo ormai parte del dibattito politico accettato da molti israeliani.
«Il punto è che se si vuole la pace, bisogna chiedersi cosa si è disposti a fare per ottenerla – ripeteva in più occasioni –. Non puoi pretendere la pace se non ti importa nulla del tuo nemico. Così non ottieni niente. Ottenere la pace dipende da cosa intendi fare per ottenerla. Cosa sei disposto a dare. Che tipo di compromesso vuoi fare. Una guerra è sempre un Male. Non puoi vincere una guerra e non puoi distruggere il tuo nemico. Il tuo nemico esiste. Questa è la ragione per cui un compromesso vale molto di più rispetto a un’altra guerra e di tutto quello che vincerai o guadagnerai sotto molti altri aspetti».
Sguardo indagatore, espressione ironica, e quella faccia un po’ così da brutto-bello e affascinante alla Jean Gabin, Yehoshua possedeva un carisma che catturava l’attenzione di chi lo ascoltava. Con le sue lectio e conferenze incantava il pubblico grazie alla sua sapienza, all’empatia e alla capacità di leggere la società israeliana; una realtà sfaccettata che descriveva con registri narrativi sempre diversi, passando dal saggio al romanzo ai racconti fino alle opere teatrali. Al centro del suo pensiero, i rapporti tra popoli, religioni e culture, ma anche i conflitti in famiglia, gli amori coniugali, la routine quotidiana e le relazioni spesso rese difficili dalla lontananza, dall’incomprensione o da un semplice «non detto», il più delle volte causa di inquietudine e di sofferenza. Senza contare i temi legati alla fede e all’ideologia politica contestualizzati nella dimensione storica dello Stato d’Israele e nel mondo ebraico andando ben al di là dei suoi confini.
Tra letteratura e politica
Tuttavia, nonostante le delusioni politiche, Yehoshua non ha mai smesso di confidare nelle nuove generazioni. Si può insegnare la pace ai bambini, gli avevamo chiesto: «Sì, a patto che gli insegnanti siano persone di cui i bambini si fidano, quindi genitori, parenti o maestri inclusi. Non sono un esperto di educazione, ma prima di tutto bisognerebbe capire cosa li porta ad essere ostili. Se il bambino esprime la sua ostilità bisogna chiedergli perché odia il suo nemico, deve rivelare le sue intenzioni ed esprimere tutta la sua ostilità passo per passo. E se il bambino esprime le sue emozioni, l’adulto deve poi fornirgli a sua volta delle spiegazioni e renderlo consapevole. Rivelandogli gradualmente le conseguenze della guerra, il bambino capisce che la guerra porta più disastri che altro. Penso che questa sarebbe una buona via. Tutto il resto, la retorica della pace e i grandi proclami non servono a niente».
Alla domanda se ritenesse importante che bambini palestinesi e i bambini ebrei imparassero le rispettive lingue, rispose: «Non credo proprio. Al contrario. Se gli ebrei capissero cosa gli arabi dicono di loro, diventerebbero ancora più furiosi… E viceversa. Mao Tse Tung ha detto testuale: “Perché non ci siano più fucili, bisogna impugnare il fucile”. Mao Tse Tung ha fatto dei disastri. Per me non è un profeta, non è un modello e non voglio entrare nel suo pensiero».