Lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld

Un profilo esclusivo di Aharon Appelfeld, a cui non piacque mai la definizione di ‘scrittore della Shoah’

Personaggi e Storie

di Marina Gersony
Dopo la sua morte – avvenuta il 3 gennaio a 85 anni al Rabin Medical Center-Beilinson Campus a Petah Tikva -, la maggior parte dei media lo hanno ricordato soprattutto come lo scrittore che ha raccontato l’Olocausto. Ma lui, prima di tutto voce ebraica anche se di indubbio respiro universale, non gradiva affatto questa definizione. Certo, Aharon Appelfeld aveva visto uccidere sua madre sotto i suoi occhi dai tedeschi, era stato deportato insieme al padre in un campo di concentramento in Transnistria dal quale era riuscito a fuggire, solo, bambino di otto anni, abbandonato al destino e a se stesso. Ma nonostante tutto quello che aveva vissuto, l’etichetta di scrittore della Shoah lo infastidiva, come se mettesse un limite al valore universale che cercava (con successo) di trasmettere con il suo pensiero e la sua scrittura: «Non esiste un epiteto più irritante. Uno scrittore scrive di sensazioni, incontri, persone e ricordi. Certo, la mia infanzia si è svolta nella Shoah, dove ho sofferto e imparato, ma non posso scrivere di sei milioni di persone che sono state sterminate. La generalizzazione, il tema, sono una conseguenza secondaria della sua scrittura, non il suo principio. Come faccio a scrivere di loro?».

Chi ha letto la sua opera (una cinquantina di libri tradotti in tutto il mondo) conosce bene la tragedia vissuta dallo scrittore, raccontata in Storia di una vita (Traduttori Ofra Bannet, Raffaella Scardi; Editore Guanda, 2008) ma sublimata o romanzata in altri suoi scritti. Un’esperienza a stento immaginabile di un bambino costretto a vagare da solo per tre anni nei boschi con il terrore di essere acciuffato in quanto ebreo, in preda agli incubi, a gentaglia e a criminali che lui definì «la mia seconda scuola». («Lì ho imparato la generosità, l’odio, la brutalità, tutti i sensi dell’essere umano»). Dopo un breve passaggio in Italia di qualche mese, nel ’46 approdò in Palestina, allora sotto mandato britannico, per iniziare il difficile inserimento nella nuova realtà.

L’incontro dieci anni fa
Lo andai a trovare una decina di anni fa nella sua casa nella periferia di Gerusalemme, un appartamento non particolarmente grande, sommerso di libri con un piccolo giardino. Mi aveva messo in contatto con lui Paola Avigdor, responsabile delle relazioni esterne della casa editrice Guanda. In quell’occasione stavo girando un documentario su “Israele multietnica” e mi interessava fare una chiacchierata con lui sulle diverse culture, tradizioni, le contaminazioni linguistiche e così via. Parlammo a lungo e di molte cose. Gli chiesi se potevo rivolgermi a lui in tedesco, avevo infatti letto da qualche parte che sua madre amava moltissimo questa lingua che lui avrebbe smarrito in seguito per colpa della guerra insieme alle altre parole a cui era abituato da bambino, un mosaico di yiddish, ebraico e ruteno che si parlava soltanto in quelle parti d’Europa e nella sua famiglia di ebrei borghesi, illuminati e assimilati. E lui, del resto, era nato nel 1932 nell’allora rumena Cernăuți, che lui chiamava con il nome tedesco di Czernowitz (o Tschernowitz), in polacco Czerniowce… e che oggi, con il nome di Černivci, è una città dell’Ucraina dell’Oblast omonima, nella Bucovina del Nord, nella regione occidentale del Paese, dove si parla ucraino, russo, moldavo e rumeno.

La questione della lingua, non a caso, è sempre stata prioritaria e particolarmente sentita dallo scrittore. Fu sorpreso ma evidentemente contento di fare l’intervista in tedesco perché acconsentì subito (anche se poco dopo riprendemmo a parlare in inglese): «Non sapevo che avremmo parlato in tedesco. Beh, mi fa piacere. Ho così poche occasioni di parlarlo. Faccio fatica a trovare le parole. Quando arrivai in Palestina dovetti fare degli sforzi immani per adottare l’ebraico come nuova lingua, era privo di qualunque legame con il mio passato. A quel tempo non ero in grado di unire le parole in frasi. Ero muto. La mia Muttersprache era anche la lingua degli assassini di mia madre. Come si poteva tornare a parlare una lingua intrisa di sangue ebraico? Certamente era un dilemma. Questo dramma non m’impedì di considerarla prima di tutto la lingua di mia madre e della mia infanzia».

L’inizio in Palestina non doveva essere stato per nulla facile per il nuovo immigrato che con grande sforzo dovette imparare ogni cosa da capo: «Avevo avuto una grande esperienza di vita, ma nessuna educazione scolastica. Parlavo molte lingue e male, ci sono voluti anni prima che capissi il contesto in cui mi trovavo, che capissi come lo Stato ebraico fosse  circondato da Paesi arabi con tutto quello che una cosa simile comportava».

Quali erano i suoi sentimenti allora?, gli domandai. «Ai miei sentimenti ho pensato dopo. All’inizio ero preoccupato, avevo problemi esistenziali. Dovevo imparare l’ebraico, capire dove mi trovavo. Dovevo lavorare, imparare a vivere in un kibbutz, a diventare un contadino, a integrarmi, quelli erano i miei veri problemi.  Poi sono entrato molto giovane nell’esercito, avevo sedici anni e mezzo. Avevo capito che eravamo circondati da degli arabi che non ci volevano come vicini. Mi chiedevo perché dovevo stare in un posto simile, pensai che forse avrei dovuto tornare da dove provenivo. Forse avrei trovato dei parenti. Ma poi, man mano che imparavo l’ebraico, avevo sempre più amici e persone con cui mi sentivo a mio agio, cominciai così a studiare per conto mio e poi sono entrato all’università. A quel punto mi si sono aperti nuovi orizzonti ed ero pronto a iniziare una nuova vita».

Iniziò così la seconda parte dell’esistenza di questo grande scrittore che in pochi anni, giovanissimo, riuscì dall’orrore del nulla a ricostruirsi l’identità che gli era stata sottratta, una dignità, un futuro e a inserirsi grazie a forza e volontà in una realtà del tutto nuova, complessa, ma immensamente ricca e stimolante. Lavorò nei kibbutzim, studiò l’ebraico e la Torah che gli fu sempre da preziosissima guida e alleata perché «senza significato la vita è una disperazione».

Nel suo ultimo libro pubblicato in Italia, Il partigiano Edmond, Guanda (2017), Appelfeld narra la storia di Edmond, diciassette anni, che sfugge per un soffio ai campi di sterminio e raggiunge alcuni partigiani ebrei che cercano di resistere all’esercito tedesco nascondendosi nella foresta ucraina… Nella lotta per la sopravvivenza Edmond fa i conti con le sue radici, la sua appartenenza, le sue emozioni profonde, i ricordi, la fede degli avi, il distacco dai suoi genitori ma soprattutto con se stesso. Lo scopo non è solo quello di sopravvivere, ma di andare oltre.

Edmond, come Aharon, ha una missione da compiere, ossia di dare un senso alla propria vita, nonostante le difficoltà e la disperazione che possono togliere ogni speranza. Perché, da qualche parte, uno spiraglio c’è sempre.  Ed è qui, che ancora una volta troviamo l’universalità della prosa di Appelfeld, il «figlio dello spaesamento», come l’ha definito Philip Roth, ma che alla fine sembra essere (ed essere stato) il meno spaesato di tutti.