di Ruth Migliara
Nipote del cantore della sinagoga di Puna, in India, ebreo della diaspora irakena, visse in un kibbutz in Israele. Oggi Kapoor è tra i più grandi artisti e scultori viventi, celebre per le opere monumentali, piene di misticismo e sacralità. Oggi Milano ospita due belle mostre, con opere mai viste prima.
L’interno della corolla di un fiore. Un calice immenso che ci accoglie dentro un tunnel, ventre floreale lungo 60 metri rivestito di acciaio bruno. Un monumentale stelo che come la navata di una cattedrale, avvolge il visitatore nella semi-oscurità e poi nel buio totale. Non si tratta del delirio onirico di qualche poeta lisergico, ma di Dirty Corner, l’opera di uno dei più grandi nomi del’arte contemporanea, lo scultore -e architetto-, Anish Kapoor, oggi esposta in due mostre personali a Milano, alla Rotonda della Besana e alla Fabbrica del Vapore (fino al 9 ottobre 2011 la prima e fino all’8 gennaio 2012 la seconda, www.anishkapoormilano.com).
“È il respiro che ci collega all’universo”, dice Anish Kapoor. “Ed è l’unico modo che ci consente di capire se qualcosa è vivo. A me interessa creare oggetti che respirano”. Una definizione che ben inquadra la duplicità del lavoro di questo artista, che si auto definisce “un pittore che è uno scultore”, che usa il pennello per scolpire e lo scalpello per dipingere. Se dell’architettura e della scultura usa infatti la tridimensionalità, tuttavia lo fa sempre per cercare effetti pittorici di visione illusoria e di esplorazione della superficie. Secondo una definizione del filosofo e rabbino tedesco Steven Schwarzschild l’estetica ebraica si baserebbe sul fondamentale principio anti-idolatrico secondo cui “lo spirito non è suscettibile di rappresentazione”. Nella Torà suona d’altronde tassativo e senza eccezioni il divieto di farsi immagini scolpite o dipinte di quanto esiste. L’artista ebreo si dibatte perciò in un eterno conflitto tra l’inquietudine alimentata da questa proibizione e il bisogno di rappresentare l’inesprimibilità dell’essere. E nessuno meglio di Anish Kapoor sembra incarnare questa tensione contraddittoria.
Nato nel 1954, Kapoor cresce in India: il padre è un indiano mentre la madre è un’ebrea irachena, figlia di un rabbino fuggito da Bagdhad nel 1920. “Mio nonno era il hazan, il cantore, della sinagoga di Puna ma noi facevamo parte della nutrita comunità di Bombay, all’epoca formata per lo più da ebrei irakeni”. Ma quando gli si chiede quanto pesi la tradizione ebraica nella sua educazione di artista, Kapoor è riluttante. Racconta tuttavia che, proprio in occasione di un viaggio in Israele, capì la natura della propria vocazione. Con l’idea di diventare ingegnere, a 16 anni Kapoor andò in Eretz Israel. Fa domanda a Bezalel e viene respinto. “Ho vissuto in Israele dal 1970 al 1973, con un passaggio anche in kibbutz”, dice. “È stato allora che ho deciso che sarei diventato un artista. E nel 1973, partii per Londra per frequentare una scuola d’arte”. Siamo negli anni Ottanta e il giovane artista comincia ad affermarsi con un’arte violenta fatta di quadri di grande formato dai colori squillanti.
Nascono le prime sculture pittoriche, in cui il colore dissolve la compattezza della forma e la tramuta in antimateria, aria e spirito. Opere che tentano di cogliere quel passaggio impalpabile dall’apparire all’essere, superandone l’inesprimibilità. In un secondo momento, Kapoor userà forme tridimensionali e le cospargerà di pigmenti gialli, rossi, blu e bianchi. Le polveri colorate fanno vibrare le superfici fino a far perdere la coscienza della forma degli oggetti stessi. E così Kapoor ci parla della creazione del mondo attraverso una riflessione sulla materia, che viene plasmata per ottenere effetti pittorici ed illusioni visive. Opere che esprimono una costante dualità: il pieno e il vuoto, il colore e la forma, l’apparire e l’essere, il maschile e il femminile. Kapoor cerca così, qabbalisticamente -e come già faceva Barnett Newman, il grande maestro dell’Espressionismo Astratto, amatissimo da Kapoor-, di conciliare la tensione tra estremi su cui si basa la continua generazione dell’universo. In questo titanico tentativo di cogliere l’intima essenza della Creazione, l’unità nella molteplicità, Kapoor sembra mostrarsi più “ebreo” di quanto non voglia ammettere. Ma Kapoor usa liberamente linguaggi che attingono alle più diverse tradizioni religiose e culturali. E usa tutto lo scaffale simbolico-religioso per parlare del sacro.
Se nella sua prima sperimentazione molto si coglie del suo retroterra indiano, numerose saranno poi le opere che rievocheranno concetti e dogmi propri della tradizione cattolica o ebraica. Spettacolare l’opera con cui rappresenterà l’Inghilterra alla Biennale di Venezia del 1990: Kapoor cita Yves Klein e il suo celeberrimo “blu Klein” creando una forma all’apparenza bidimensionale, che si rivela tuttavia concava, quasi una grotta in polvere blu di Prussia, colore esoterico presente in tutte le religioni per indicare il trascendente, l’infinito, lo spirituale. Kapoor tratta in quest’opera il tema del sacro, attratto da sempre dalle grandi verità teologiche e filosofiche. Ci parla dei grandi dogmi del cattolicesimo, ma anche dei Chukkim dell’ebraismo, ossia quegli statuti per cui l’uomo non può darsi spiegazione logica di ciò che percepisce o vede. Sono le sefirot, gli attributi o emanazioni divine della Qabbalah ebraica, di cui non possiamo che percepire istintivamente uno stato parziale e frammisto. Sono le verità di fede che il filosofo danese Kierkegaard definisce “salti nel buio”, di fronte alle quali all’uomo non resta che affidarsi ciecamente senza cercare labili prove che rassicurino la sua intelligenza. Anish Kapoor riesce insomma ad esprimere concetti chiave universalmente condivisibili, attraverso opere che nella loro monumentale essenzialità parlino all’umanità intera, senza confini etnici o religiosi. Un linguaggio dell’assoluto.
Nel corso degli anni ‘80, la dualità dell’arte di Kapoor sembra dirimersi e trovare soluzione in un’unità sempre più monumentale e grandiosa. Le opere finiscono per invadere lo spazio espositivo e farsi anch’esse architettura. Esempio culminante è Marsia, l’opera di maggiori dimensioni che l’artista abbia mai realizzato, creata per la Turbine Hall della Tate Modern di Londra nel 2002, è una grande “calza”, formata da una membrana di PVC rosso, tenuta ben tesa da tre enormi anelli d’acciaio.
Nel 1996 Kapoor si confronta con un lavoro su commissione che gli impone il confronto con un difficile tema: la Shoah. La Sinagoga liberale londinese di St John’s Wood gli chiede un Memoriale dell’Olocausto. “Ogni memoria può essere solo una tessera, una parte del tutto,” dice. “Non deve diventare un’icona, ma deve indurre il ricordo sia per i sopravvissuti che per le generazioni successive. Non nascondo che quello fu un lavoro difficile, ero incerto, nervoso. Che ne sapevo io dell’Olocausto? Come potevo affrontarlo, io che appartengo a un’altra generazione? Certo, come ebreo, quella è la mia storia, è il mio dolore profondo…”. Così Kapoor riflette sui problemi che gli artisti devono affrontare quando si occupano di Shoah. “Riflettere su un evento così pagano come l’Olocausto è profondamente umiliante”, spiega. Kapoor realizzerà una pietra nera di forma concava, con un superficie lucida al suo interno, che riflette lo spettatore a testa in giù. “Non si può dare forma a un dolore pubblico senza finire nel sentimentalismo. Il dolore è un momento privato. Qualcosa in cui ognuno è profondamente solo”. La stessa solitudine sembra riflettersi nell’esperienza di questa opera. Siamo soli nel vedere la nostra immagine rovesciata riflessa sulla pietra. Kapoor ci lascia ancora una volta sbigottiti con la sua monumentale semplicità, capace di mettere “a testa in giù” ogni nostra certezza. Kapoor ci ricorda l’Olocausto, facendoci rivivere metaforicamente lo spaesamento e il capovolgimento di valori che comportò quell’immane tragedia.