di Fiona Diwan
I romanzi, gli scrittori e la lingua ebraica. La società israeliana e il suo Parnaso letterario. La bohème di Tel Aviv, le rivolte sociali, la politica. Da Appelfeld a Oz, da Zeruya Shalev a Dorit Rabinyan… Parla Cyril Aslanov, docente di letteratura, studioso e linguista. E fa il punto
«Da un secolo, la lingua ebraica è lo specchio del vitalismo anarchico di Israele; un’anarchia linguistica meravigliosamente feconda e creativa, ha detto una volta Gershom Sholem. La lingua ebraica è in continua metamorfosi e inutilmente l’Accademia per la lingua ebraica, di cui faccio parte, cerca oggi di fissare una norma, ahimè senza riuscirci, di stabilire delle regole e prospettare un moderato conservatorismo linguistico. La realtà – e la sua espressione verbale – corre più in fretta, l’atteggiamento dei giovani scrittori israeliani oggi è molto creativo, spregiudicato e libero, capace di coniare neologismi o di lanciarsi nel più sfrenato sperimentalismo linguistico (vedi il caso di Orly Castel Bloom). La lingua ebraica è in continua metamorfosi, fin troppo rapida, e si crea uno iato tra lo sperimentalismo, la creatività nell’invenzione di nuove parole e il conservatorismo accademico».
A parlare così è Cyril Aslanov, studi di filologia greca e di linguistica alla Sorbona e alla Ecole Normale di Parigi, ex docente alla Hebrew University di Gerusalemme, professore oggi a Aix-Marseille Université nonché membro dell’Accademia della Lingua ebraica e docente di Letteratura del Corso di Laurea triennale in Studi ebraici dell’UCEI, a Roma. Aslanov parla così tante lingue che non sa dire quale sia la lingua in cui sogna o pensa: padre armeno, madre ebrea di origine lituana, nato a Parigi nel 1964, oltre alle tre lingue d’origine, parla correntemente un’altra dozzina di idiomi, tra cui il russo, l’arabo, un certo numero di lingue slave, lo spagnolo, il portoghese e, ovviamente, l’ebraico e l’italiano.
Esiste oggi un Parnaso israeliano?
Certamente. Ma oggi la bohème letteraria non è più un’esclusiva del mainstream ashkenazita che per decenni è stato l’elite umanistica del Paese, l’establishment letterario. Oggi, le cose sono cambiate e la città di Tel Aviv è diventata un polo di attrazione e irradiazione. Va detto, tuttavia, che Tel Aviv è come una serra di orchidee, vive in una sua bolla totalmente staccata dalla realtà del Paese, dalle problematiche di un mondo che vive sulla difensiva. La letteratura di Tel Aviv, adesso, esprime una forma di escapismo, una voglia di fuga e di evasione, il discorso civile si è fatto più intimista e sociale, meno preoccupato di risolvere la questione coi palestinesi e più attento ai problemi sociali, alle diseguaglianze o ai rapporti tra le varie anime del Paese, vedi quelle di recente immigrazione. Anche qui, l’erosione della classe media si è fatta sentire con la cosiddetta Meha’ah Hevratit, la protesta sociale del Cottage Cheese, quella delle tende a Rothschild Boulevard nel 2011. È il tema sociale o intimista quello che oggi prevale nelle lettere israeliane, cosa che peraltro è anche lo specchio di una profonda dicotomia tra una società che corre velocissima e una politica istituzionale che ha congelato tutti i problemi, dalla pace al diritto di famiglia, al divorzio e alle ‘agunot…
Quali i suoi scrittori più amati?
Zeruya Shalev, con la sua scrittura forte, disinibita, piena di immagini ardite e provocatorie; Amos Oz, sobrio e asciutto; Dorit Rabinyan, una voce davvero originale e fuori dal coro; e, sopra tutti, amo A. B. Yehoshua, raffinato, complesso, ricco, il più grande dopo S.Y. Agnon, il mastodonte della letteratura israeliana, un monumento. E infine, Aaron Appelfeld, anch’egli un gigante, un europeo travestito da israeliano: esibisce un palinsesto germanofono camuffato dall’ebraico e rappresenta il diamante dell’eredità diasporica incastonato nella letteratura israeliana; non a caso, tradurre l’ebraico di Appelfeld in tedesco è facilissimo, la struttura linguistica è la stessa. La sua è una scrittura europea, al livello di un Stefan Zweig. Essendo io profondamente diasporico, mi riconosco di più in un autore diasporico come Appelfeld – o come Yehoshua (la madre è nata in Marocco) e Oz -, che hanno forti reminiscenze diasporiche. C’è inoltre un curioso autore, poco conosciuto in Italia ma amatissimo nella Diaspora: Haim Sabato. La sua scrittura è colta e piena di citazioni tratte dalla letteratura sacra – una prosa che in ebraico si identifica con la parola shibutz-. In Israele, Haim Sabato è marginalizzato a causa della sua estrazione religiosa, è un rabbino di origine egiziana-aleppina, quindi sefardita e nel Parnaso secolarizzato e hilonì di Tel Aviv, questo non funziona. Nemo profeta in patria: Haim Sabato è adorato in Diaspora, dai russi, inglesi e americani, francesi…
Proprio Yehoshua lamenta pubblicamente la perdita della dimensione dell’impegno, un valore che latita, dice, nella scrittura dei giovani autori oggi.
Non c’è nulla di più noioso della letteratura impegnata e fa male A.B. Yehoshua a lamentarne la mancanza nei giovani scrittori. Del resto, la sua prosa non è mai stata impegnata, anzi, Yehoshua è oggi il Victor Hugo di Israele, la sua è una grandezza riconosciuta e istituzionale. È un esteta che conosce l’arte sublime di raccontare storie. Le sue opinioni politiche non sono pregnanti. Com’è possibile che uno scrittore sia così noioso quando parla di politica, così geniale quando scrive? La letteratura deve commuovere, deve rompere i codici esistenti per tracciare delle nuove vie in campo letterario E poco interessante è anche il parallelo che molti fanno tra l’Israele di oggi e la Repubblica di Weimar, come fa l’establishment di sinistra di Tel Aviv: Israele non è così, la verità è che si è consumato un distacco tra il Paese reale e questa città, che resta tuttavia il centro culturale, economico e il riferimento degli stili di vita di Israele. Semmai, si può dire che il discorso intimista che prevale nella narrazione ha perso per strada il discorso civile. Per decenni la politica e società israeliane sono state ossessionata dal problema palestinese. Oggi non è più così, sono i problemi sociali interni a catalizzare gran parte dell’attenzione. Non a caso scoppiò nel 2011 la Meha’ah Hevratit, la frattura tra un ceto di arricchiti e la massa numerosa che non arriva a fine mese, tra una politica che ha congelato tutto, e vive nell’immobilismo, e una società che corre velocissima.