Il progrom del 1° giugno 1941 a Baghdad

Baghdad, il pogrom contro gli ebrei del 1941e il ghetto: il racconto di un testimone

Personaggi e Storie

di Marina Gersony
Tutto iniziò quel maledetto 1° giugno del 1941 a Baghdad, durante la festività di Shavuot, a ridosso della vittoria britannica nella guerra anglo-irachena. Una folla inferocita si scagliò contro la popolazione ebraica profanando le abitazioni e massacrando intere famiglie. Bilancio: 200 morti e un migliaio di feriti (diverse fonti parlano di 300 ebrei uccisi e altre addirittura di 600). Il pogrom, noto come Farhud (in arabo, letteralmente «espropriazione violenta»), rappresentò un punto di svolta per la comunità ebraica irachena. Furono numerosissimi gli ebrei a lasciare un Paese dopo il tragico evento; ebrei che nel corso della storia avevano visto alternarsi – in base alla maggiore e minore intolleranza dei governanti – periodi di convivenza pacifica e cooperazione a periodi di forte discriminazione, distruzione delle sinagoghe e conversioni forzate all’Islam. 

Il Fahrud rappresentò di fatto uno degli eventi più traumatici nella memoria collettiva degli ebrei iracheni; un capitolo critico ma trascurato nella storia del Ventesimo secolo. Così come avvenne con i pogrom della Notte dei cristalli – la tristemente nota Kristallnacht che scoppiò su scala nazionale nella Germania nazista e in Austria nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 – tutti gli ebrei in Iraq vennero perseguitati sulla scia di una folle ideologia filo-nazista. In seguito, nel 1948 dopo la proclamazione dell’indipendenza di Israele e l’aggressione araba allo Stato neonato, la situazione si fece ulteriormente insostenibile segnando la fine di una vivace e affascinante comunità ebraica con i suoi 2.500 anni di Storia. 

 

Un articolo su questo stesso sito a firma di Roberto Zadik ripercorre quei fatti tragici che hanno segnato la memoria collettiva degli ebrei iracheni, tra i quali Daniel Sasson, ottuagenario israeliano di origine irachena, oggi attivissimo nel rievocare quelle drammatiche pagine di antisemitismo mediorientale; una testimonianza raccolta nel suo recente libro History Kills: The First and Last Ghetto in Iraq, disponibile in ebraico, in cui l’ultraottantenne fa luce su una parte di quel periodo terribile. 

Sasson parla della sua infanzia, racconta l’infausta alleanza tra Hitler e il primo ministro iracheno Rashid Ali Al-Gaylani, l’ardente nazionalista che destabilizzò temporaneamente il Paese nel tentativo di rimuovere l’influenza britannica dall’Iraq. («Questa storia ha bisogno di essere conosciuta e che evidenzi il legame tra i ghetti nazisti in Europa e il ghetto in Iraq»). Una testimonianza preziosa raccolta anche in un’esaustiva intervista di Lynette Hacopian apparsa in questi giorni su The Times Of Israel di cui riportiamo i punti salienti insieme ad altri resoconti di quel periodo storico reperibili online. (VIDEO su Youtube). Perché se da un lato la Shoah in Europa è stata ampiamente documentata, assai meno è stato scritto sull’influenza tedesca in quella terra e di come questa abbia decimato le popolazioni ebraiche in Medio Oriente durante e dopo la Seconda guerra mondiale.

Il primo ministro iraqeno Rashid incontra Adolf Hitler nel 1942

La storia di Daniel Sasson, testimone del pogrom di Baghdad

Daniel Sasson da giovane
Daniel Sasson da giovane

Daniel Sasson è nato a Diwaniya, città dell’Iraq centro-meridionale con il nome di Riad Izzat Al-Sassoon Mualem. La sua famiglia era tra le più importanti e influenti della Comunità ebraica in Iraq. Quando il primo ministro Al-Gaylani ordinò la creazione di un ghetto nella cittadina, le autorità scelsero la villa spaziosa del nonno, situata in una vasta tenuta privata, locazione ideale per ospitare i 600 ebrei della cittadina, più altri 70 provenienti da Baghdad e da altri luoghi durante il maggio del 1941. «Avevo cinque anni – racconta Daniel Sasson – ma ricordo tutto, come fosse ieri». 

Intanto l’odio nei confronti degli ebrei era sempre più evidente e palpabile. L’aria si era fatta irrespirabile. Già qualche anno i Sasson si erano resi conto che per loro non c’era più futuro in quella parte di mondo. Qualche anno prima, nel 1937, il padre di Daniel aveva costruito una casa che un sindaco antisemita aveva fatto demolire con falsi pretesti e costringendo la famiglia a trasferirsi temporaneamente a Baghdad. In seguito il padre, tornato a Diwanya, fece causa alla municipalità e vinse costringendo il governo a sottoscrivere la ricostruzione della casa. Correva l’anno 1941. 

Nel frattempo la vita nel ghetto si faceva sempre più aspra. «Ci sono state difficoltà all’interno del ghetto. Noi eravamo affamati – afferma l’anziano testimone nell’intervista a The Times Of Israel –. La polizia era armata di lance quando siamo arrivati ​​ed è stato un mese molto duro». 

I ricordi del sopravvissuto al massacro di Farhud scorrono in un crescendo drammatico: il cibo che consisteva in poche olive al giorno, il pane rubato, la fame che aveva esaurito i corpi, i bambini che singhiozzavano di notte alla disperata ricerca di qualcosa da mangiare, le donne da una parte e gli uomini dall’altra, la comunicazione limitata, difficile, angosciata e angosciante. E poi i lavori forzati per gli uomini, dodici ore di seguito, dalle 7 alle 19 senza sosta, innaffiando gli alberi che crescevano lungo il fiume. 

La liberazione degli ebrei avvenne all’improvviso e senza alcun preavviso. Daniel Sasson ricorda di aver sognato una notte di come Hitler lo avesse catturato per portarlo via. Si era svegliato sudato ed era salito sul tetto per tranquillizzarsi: era solo un bambino, come lo erano tutti i piccoli ebrei iracheni incolpevoli e smarriti, avvolti in una realtà troppo spaventosa per essere vera. «Sapevamo che il ghetto era di ispirazione nazista e sapevamo anche che se li avessero lasciati continuare, i ghetti sarebbero diventati mattatoi per espellere gli ebrei dal Medio Oriente».

In seguito gli ebrei appresero che i soldati britannici avevano invaso il Paese e che Al-Gaylani era stato deposto. Lo stesso giorno la famiglia Sasson decise di andare a casa di uno zio che si trovava nella città di Shaamiya, a 35 chilometri di distanza. Il giorno successivo, il 1 giugno 1941, durante Shavuot, mentre il piccolo Daniel era affacciato alla finestra, all’improvviso si sentì uno sparo: si trattava si suo zio, colpito in pieno e che si era accasciato per terra, morto sul colpo. Lo stesso giorno più di 200 ebrei vennero massacrati senza alcuna pietà in Iraq, a migliaia furono feriti e le donne stuprate. Le aziende e le proprietà dei membri della comunità erano state demolite, incendiate o saccheggiate. Gli aggressori avevano usato ogni arma immaginabile, non avevano esitato a investire gli ebrei con i loro veicoli. Uccidere, sterminare, era il loro unico obiettivo. Gli ebrei più fortunati furono accolti dai loro vicini musulmani che in quel frangente avevano accettato di mettersi in grave pericolo e rischiare la loro stessa esistenza.

La casa del nonno di Daniel sasson a Diwaniya trasformata in un ghetto nel 1941
La casa del nonno di Daniel Sasson a Diwaniya trasformata in un ghetto nel 1941


Dopo l’omicidio dello zio di Daniel a Shaamiya, la famiglia Sasson tornò a Baghdad, dove viveva da sei anni. Suo padre aveva aperto una fornace che aveva impiegato diverse centinaia di persone.

Nel 1951, il quindicenne Daniel e suo fratello partirono per Israele. Daniel prestò servizio nell’IDF e in seguito divenne un ingegnere. Oggi, all’età di 85 anni, vive sempre in Israele con la sua famiglia. Spiega che vuole condividere le sue esperienze perché la maggior parte delle persone non è a conoscenza di un ghetto ebraico in Iraq. «Questa storia è raccontata con 70 anni di ritardo – osserva –. Ma anche adesso è ancora un buon momento».

– Qui lintervista  integrale di Lynette Hacopian apparsa su The Times Of Israel.

Sul tema segnaliamo anche il libro intitolato Iraq’s Last Jews. Stories of Daily Life, Upheaval, and Escape from Modern Babylon a cura di Tamar Morad, Dennis Shasha e Robert Shasha. Il libro parla degli ultimi ebrei dell’Iraq. Finalista del National Jewish Book Award, è una raccolta di racconti in prima persona sull’ex-vivace comunità ebraica babilonese di 2.500 anni e la sua scomparsa a metà del XX secolo. Questo libro racconta la storia dell’ultima generazione di ebrei iracheni, che ricordano il loro paese di nascita e descrivono la persecuzione che li ha cacciati, il risultato delle influenze naziste, il crescente nazionalismo arabo e la rabbia per la rinascita dello Stato di Israele.