di Marina Gersony
Cosa vuol dire essere ebrei? Che differenza passa fra un israelita, un ebreo della Diaspora e un ebreo israeliano? Ebrei si nasce o si diventa? È ebreo chi abbraccia un’altra fede religiosa? (Semel Judaeus semper judaeus, chi è ebreo lo rimane per sempre, continuano a ripetere non pochi rabbini). Qual è, dunque, il segreto di questo popolo sopravvissuto a molteplici civiltà tramontate da millenni? E cosa dire degli assimilati, degli smarriti o dei perplessi?
Questioni antiche, di portata universale dibattute in migliaia di scritti e sulle quali intellettuali, studiosi religiosi e laici continuano a confrontarsi e interrogarsi. Come il romanziere polacco Marek Halter, fuggito a cinque anni con i genitori dalla Varsavia occupata dai nazisti, il quale si chiede, in sintesi, nel suo saggio Perché sono ebreo (Sperling & Kupfer, 2000): «Qual è la caratteristica comune dell’ebraismo? Religione, identità sociale e culturale, popolo, nazione, razza, prodotto, corporazione, il sale della Terra… o qualcosa che comprende e trascende tutto questo?».
A Mantova, nel corso del Festivaletteratura, abbiamo incontrato diversi scrittori ebrei ed ebrei israeliani per riflettere su un tema che continua a disorientare, appassionare e calamitare – nel bene e nel male – l’interesse dei nostri contemporanei e degli stessi ebrei. Eshkol Nevo è uno di loro. Nato a Gerusalemme nel 1971, è uno scrittore affermato che ha pubblicato svariati libri di successo. L’ultimo – Neuland (Neri Pozza. Traduzione Ofra Bannet e Raffaella Scardi) -, si ispira all’Altneuland (Vecchia terra nuova), di Theodor Herzl. «Un libro, quello di Nevo – come scrive Omri Herzog su Ha’aretz -, che indaga il significato di essere israeliani, il passato, la psicologia, le identità che essa crea».
Che cosa vuol dire essere ebrei, dunque?, chiediamo allo scrittore, voce carismatica della giovane narrativa israeliana.
«Non posso rispondere a questa domanda perché non amo le definizioni – spiega -. Quello che a me interessa non sono tanto le etichette quanto la complessità dell’universo ebraico. Se parliamo di un israeliano lo possiamo definire come un ebreo che sceglie di vivere in un luogo preciso e non in una Diaspora. Un ebreo che sceglie quindi di non errare, bensì di crearsi una volta per tutte un luogo fisico, un territorio autonomo dove stabilirsi. Tuttavia, nell’intimo di un israeliano – e questo lo si percepisce chiaramente in Neuland – continua a esistere un ebreo errante. Lo vediamo perché gli israeliani viaggiano senza sosta; perché i giovani, una volta finito il servizio di leva, si recano numerosi all’estero; perché quando Israele non ha vinto la Seconda Guerra del Libano, molti ebrei hanno cercato di procurarsi disperatamente un passaporto polacco o tedesco. Perché negli ebrei permane sempre e comunque l’istinto di errare. Tutta questa complessità è interessante. A questo punto sorge spontanea la domanda: un israeliano che vive a Toronto o a Palo Alto (in ognuna di queste città ce ne sono circa 200mila), smette di essere un ebreo oppure diventa un ex israeliano?».
Il tema è, come si vede, complesso.
Se per molti ebrei odierni – diasporici o israeliani – l’ebraicità assume di volta in volta sfumature diverse mentre la religione dei padri si annacqua con lo scorrere del tempo, nel cuore di moltissimi, forse nella maggior parte, permane un forte senso di appartenenza a un’identità poliedrica e sfaccettata. Cosa hanno in comune ebrei laici, ortodossi, conservatori, ricostruzionisti o riformati? La galassia ebraica è decisamente varia e va da posizioni ultrareligiose a posizioni che stanno ai confini dell’ateismo. Eppure, tutto è ebraismo.
«Cosa hanno in comune? Non lo so – osserva Nevo -. Quello che posso dire è che in Israele sta crescendo una notevole curiosità nei confronti dell’ebraismo da parte di persone che non vogliono essere etichettate. Ci sono numerose situazioni dove si può vedere un interesse sempre maggiore verso l’ebraismo in sé, al di fuori da tutte queste definizioni. Si torna alla religione, si fa chazarà be teshuvà (così si chiama il ritorno alla religione da parte degli ebrei laici, ndr). Per esempio, ho due amici laici che sono diventati religiosi. Ma non sono interessati alle etichette, rifuggono dalle classificazioni. Sono semplicemente tornati all’ebraismo. Non appartengono a nessun gruppo, a nessuna corrente, bensì all’ebraismo punto e basta».
In breve, essere ebrei si potrebbe definire “un modo di essere”?
«Mi domando piuttosto- risponde Nevo – se nel cosidetto “nostro modo di essere” sia più significativo il fatto di essere uomini o donne, giovani o vecchi o di avere figli o di non averne. Quando fai parte di una minoranza che vive in una Diaspora che ti ricorda continuamente che sei ebreo, a quel punto ti percepisci come tale. Io prima di essere ebreo sono un uomo, poi un padre e poi uno scrittore. Penso tuttavia – nonostante come prima reazione io non dichiari di essere ebreo -, che l’ebraismo fa parte del mio inconscio. Me ne sono reso conto quando è uscito il mio libro Neuland. In questo libro in particolare echeggia la domanda: Diaspora o Ritorno (in Israele, ndr), una domanda antica che appare da sempre nell’ebraismo».
A proposito, Meni Peleg, uno dei protagonisti del romanzo di Nevo, fonda in Sudamerica uno “Stato ombra” in miniatura che rammenti allo Stato d’Israele cosa avrebbe dovuto essere e cosa potrebbe essere, una comunità, perché non vada perduta la millenaria speranza degli ebrei di essere un popolo libero. Osserva l’autore: «I personaggi del mio libro sono ebrei che ho voluto far uscire dalla loro israelianità e da un loro senso di appartenenza molto forte. Portarli fuori da Israele è stato un modo di farli uscire da un’identificazione profondamente radicata. In breve, una possibilità per vedere cosa c’è e cosa potrebbe esserci altrove».
Cosa vuol dire per Eshkol Nevo essere israeliani? «Per la mia generazione, Israele è soltanto una possibilità. Israele “perde” molti israeliani per il fatto che possono scegliere tra un’infinità di opzioni. Non hanno paura dell’antisemitismo, possono viaggiare senza problemi e questo li obbliga a dare una risposta precisa sul perché vogliono restare in Israele. Oggi come oggi, la loro appartenenza a Israele deve essere motivata, giustificata. Non è una cosa ovvia. Non va data per scontata. La stessa risposta si può dare riguardo all’ebraismo. Ci si può lamentare di questa perdita dell’ebraismo oppure si può scegliere di creare per l’ebraismo dei contenuti rilevanti per le nostre generazioni. Essendo legittime tutte le possibilità, sia per un ebreo sia per un israeliano, siamo costretti a impegnarci e dare delle risposte attuali».