Basta con l’ipocrisia di chi piange la Shoah e poi diffama Israele!

Personaggi e Storie

di Ruth Migliara

C’è lo spiritello di un albero che seduce un rabbino: tutto pur di convincerlo a una languida religione della bellezza che alla dimensione morale dell’ebraismo sostituisca la tensione estetica tipica del paganesimo.
Sedotto infine dall’idea che il bello sia più importante del buono, il rabbino accetta, e diventa “pagano”.
In questo racconto di Cynthia Ozick, tutta la storia è giocata sull’opposizione tra dimensione etica, tipica dell’ebraismo, e dimensione estetica, tipica del panteismo pagano. Spesso la Ozick offre nei suoi racconti una mitologia dell’inconscio moderno: descrive pulsioni e ipocrisie con ironia fulminante, ma allo stesso tempo con la tenerezza indulgente che si ha verso le umane debolezze. Il tutto con uno sguardo amaro e insieme compassionevole.
Statunitense, 82 anni, autrice di romanzi e racconti, nonché di saggi di argomento letterario e politico, la Ozick è permanentemente candidata al Nobel per la letteratura ed è altrettanto perennemente non premiata.
Secondo l’opinione della stessa Ozick difatti, chi mai darebbe un Nobel a un’ebrea sionista che, oltre a essere apertamente filo-israeliana, è portatrice di idee scomode, come quelle per cui definisce la sinistra americana “fascista” e per le quali è pronta ad affermare che “Il Diario di Anna Frank avrebbe fatto una fine migliore se fosse andato bruciato, piuttosto che venire manipolato, interpretato e pubblicato nella forma in cui si trova oggi”.
Cynthia Shoshana Ozick nasce a New York nel 1928. Seconda di due figli, i genitori -proprietari di una farmacia nel Bronx-, erano due immigrati che dal nord ovest della Russia trovarono in America un rifugio ai pogrom.
Cynthia fa in questo contesto esperienza precoce dell’antisemitismo dilagante, anche nella terra di libertà e tolleranza del sogno americano.
Ricorda le pietre che le venivano tirate addosso davanti alle due chiese del quartiere, dove ragazzini urlanti la apostrofavano come “assassina di Cristo”. O a scuola quando fu pubblicamente umiliata dall’insegnante per il suo rifiuto di intonare un canto natalizio. In un’intervista rilasciata alla Paris Review, dichiara di essersi sempre sentita una scrittrice. Di aver saputo fin dagli esordi scolastici che la scrittura sarebbe stata la sua vita. “È come essere nata anfora”-dichiara- “non importa se conterrai acqua o vino. Si sa che sei un’anfora e questo basta”. Cynthia cresce con questa consapevolezza e si laurea in letteratura inglese all’università dell’Ohio.
In seguito, la Ozick passerà anni di grande sconforto e dovrà attendere i 37 anni, prima di vedere pubblicata nel 1966 la sua prima raccolta di novelle, intitolata Trust. Dice di aver passato quel tempo ad oscillare tra l’arrogante fiducia giovanile nel proprio “potere” e la sensazione costante di umiliazione. Nel frattempo sarà il marito a sostenerla, moralmente ed economicamente, mentre lei si limiterà a pubblicare poesie sulla Virginia Quarterly Review. Racconta del periodo precedente il suo esordio, passato alla scrivania, con la penna in una mano e con l’altra a dondolare la carrozzina di suo figlio appena nato. Quel manoscritto rimarrà un anno sulla scrivania dell’agente Theron Raines prima di essere letto. E sarà peraltro un collega di questi, David Segal a visionare infine lo scritto della Ozick.
Segal trova estremamente interessante il racconto, ma rimanda all’autrice una bozza piena di segni rossi e di modifiche da apportare. La scrittrice si trova davanti a una scelta: non essere mai pubblicata o accettare a malincuore le correzioni dell’editore.
Sceglie la prima. Rifiuta qualunque correzione, ma Segal, di fronte alla coerente fierezza dell’autrice, decide di pubblicarne comunque l’opera, senza il minimo cambiamento. Così inizia la carriera di Cynthia Ozick.
Oggi è in uscita negli Usa il suo ultimo romanzo, Foreign Bodies, una fotografia in negativo de Gli Ambasciatori di Henry James, mentre Bompiani pubblica un’ampia raccolta di racconti, intitolata La farfalla e il semaforo, in cui un penetrante e lucidissimo sguardo ebraico traccia un’antropologia delle passioni e meschinità umane, dall’esilio all’eresia. Se si chiede alla Ozick in che modo uno scrittore possa definirsi ebreo e se lei possa essere etichettata come tale, la risposta è contraddittoria. Per la scrittrice si tratta di un ossimoro. L’ebraismo è decoro, responsabilità e dominio razionale, mentre lo scrittore è una mente immaginifica irrazionale e capricciosa, che non soggiace ad alcuna legge morale. Se nella vita la Ozick si sforza ad essere ebraicamente responsabile, questo non avviene nella scrittura, dove tutto è concesso e sgorga immediato dalla fantasia dionisiaca dell’autore, priva dei freni e del contegno propri della modalità ebraica.
“Fino a poco tempo fa”,-afferma la scrittrice- , “avevo in merito una visione piuttosto convenzionale. Pensavo che l’attività immaginifica dello scrittore potesse essere in concorrenza con quella del Creatore dell’Universo.
Che la fantasia fosse rivale del monoteismo, in quanto creatrice di idoli. Oggi ho cambiato idea, penso che l’immaginazione sia lo strumento fondamentale del monoteismo. Quale più alto utilizzo della fantasia se non immaginare l’inimmaginabile grazie al quale, nella mente umana, può sorgere l’idea di un Dio non corporeo?
Solo nel suo stadio più basso e volgare l’immaginazione cade nella proliferazione di immagini”. Dunque l’ebreo, secondo la scrittrice, deve essere colui che più degli altri, in una cultura aniconica e antivisiva come quella ebraica, deve fare utilizzo delle facoltà immaginifiche per tener fede alla totale astrazione dell’idea di Dio.
“Essere ebreo significa avere una sorta di anzianità storica, ma non solo.
L’identità ebraica si fonda su due momenti: la scelta anti-idolatrica e, di conseguenza, quella di costituirsi come una umanità separata. Se soffiamo nella parte più stretta dello shofar, la nostra voce si sente lontano, è acuta e chiara. Se scegliamo invece di soffiare nella parte più larga, la nostra voce si perderà e non l’ascolterà nessuno. Siamo parte di una cultura oceanica che possiede una moltitudine di testi. Per un ebreo e per giunta intellettuale, è normale considerarsi un outsider. Ma in un’epoca di relativismo culturale è oggi arrivato per noi il momento di scegliere da che parte stare”. Nei racconti della Ozick c’è l’intero universo ebraico penetrato con sguardo ironico e dissacrante, ma anche affettuoso. Sulla Shoah ha scritto tuttavia un solo racconto che ne parli direttamente, Lo Scialle. “Poi non mi è più successo -afferma-. Non ne ho il diritto. Non ero lì. Mi affido a coloro che c’erano, a Levi, a Wiesel, a documenti, diari, memorie.
Diffido della fiction su quei diabolici avvenimenti, della poeticizzazione mitizzante. In questo campo elimino lo scrittore e divento un membro del popolo ebraico e nient’altro”. D’altronde la Ozick arrivò a proporre addirittura l’abolizione del Giorno della Memoria, sottolineando come il generale compianto del passato sia inutile se accompagnato da atteggiamenti antisemiti, mascherati oggi dietro l’aspra critica alla politica di Israele. “Quant’ è facile piangere gli ebrei morti!” -afferma la Ozick-. “Di sabato si mettono corone alle lapidi, al lunedì si diffama Israele. La memoria diventa profanazione quando gli ebrei vivi vengono insultati, quando la legittimità di Israele viene attaccata.
Comodo piangere gli ebrei assassinati incoraggiando un nuovo assassinio dei vivi: come dovremmo chiamare tutto ciò se non nuovo antisemitismo?”.
Poesia, passione e un’indole poco propensa al politically correct. Questo è la Ozick. Un personaggio scomodo e cocciuto. Puro come il diamante, tagliente come una lama.