Toufic Mizrahi da Beirut a Milano, tra poesia e giornalismo

Personaggi e Storie

di David Szilpman

Editore, uomo politico, intellettuale, Toufic Mizrahi  (nella foto con la nipote Fiona Diwan) fu accusato nel 1960 di essere una spia di Israele, condannato da innocente, il suo giornale requisito. Campione  di multiculturalismo, si sentiva ebreo, arabo  e francese, allo stesso modo. Una storia d’ieri ancora attuale

Sono in pochi a ricordarne oggi la storia. Eppure, in quegli anni, a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, a parlarne erano stati in molti. Non stupisce che il fatto fosse sulla bocca di tutti, della Beirut cristiano maronita, di quella araba musulmana e di quella ebraica, dal jet set alle rubriche mondane della Revue du Liban, fino alle cronache de L’Orient o del N’ahar (il quotidiano in lingua araba) e, argomento del giorno per le famiglie ebraiche di Wadi Abu Jamil e di Rue Georges Picot. I titoli erano in prima pagina: “Chiesta la condanna a morte per il giornalista Toufic Mizrahi”, accusato dal tribunale militare di spionaggio a favore di Israele nonché di alto tradimento dal governo del Generale Cheab.

Il fatto era clamoroso. La richiesta di condanna a morte in contumacia come spia, il sequestro del suo giornale (mai restituito), Le Commerce du Levant, in lingua francese, la falsità delle accuse montate durante un processo-farsa, al solo scopo di incamerarne il giornale con una cifra irrisoria, avevano scosso profondamente il milieu politico e sociale del Paese dei cedri, non solo ebraico.
Toufic Mizrahi, cittadino libanese nato nel 1900 a Persepoli-Isphahan e cresciuto a Damasco, editore e direttore del settimanale economico-politico Le Commerce du Levant, uomo politico, poeta e scrittore in lingua araba, giornalista in lingua francese, intellettuale e opinion maker della Beirut tra gli anni Trenta  e agli anni Cinquanta, non avrebbe mai immaginato che la sua avventura umana e professionale potesse finire in modo così traumatico.

«Diffida del successo. Per un ebreo non è mai garanzia di nulla. Siamo stati sempre uccisi per invidia sociale, ieri come oggi. Cambiano le scuse apparenti con cui ti fanno fuori ma lo scopo, alla fine, è sempre quello, la gelosia sociale, per portarti via quello che hai costruito e che detieni, secondo loro, in modo illegittimo, visto che sei ebreo».Queste le parole di Toufic Mizrahi rievocate da Fiona Diwan, giornalista anch’essa e attuale direttore del Bollettino, nipote di Mizrahi. Una storia, quella di suo nonno, che merita di essere ricordata e raccontata, oggi che i riflettori tornano a riaccendersi sul destino degli ebrei dei Paesi Arabi, del loro esodo silenzioso, un milione di ebrei fuggiti abbandonando tutto, perseguitati nel mondo arabo durante buona parte del XX secolo (è stato questo il tema dell’edizione 2017 del Moked di aprile a Milano Marittima). Stiamo parlando degli ebrei perduti del Mediterraneo, la millenaria civiltà giudeo-araba cancellata in pochi decenni, un’ecatombe oscurata da quella certamente più drammatica della Shoah e degli ebrei d’Europa, ma che resta tuttavia una pagina criminale della storia ebraica contemporanea.
Quella di Toufic Mizrahi non è una storia come tante. Uomo elegante e raffinato, profondamente integrato nel tessuto sociale e politico del suo Paese, ne era un esponente militante e rispettato, un uomo la cui lealtà non fu mai messa in discussione dai molti amici arabi che aveva. La vicenda, avvenuta tra il 1959-’60, si sarebbe portata dietro un’amarezza, un senso di tradimento fortissimi. Nel 1948, il primo Presidente dello stato d’Israele, Chaim Weizmann aveva chiesto a Toufic Mizrahi di far parte del primo governo del Paese, e di diventare responsabile per gli Affari arabi del nuovo stato ebraico. «Devi accettare, devi farlo» -, gli aveva detto Weizmann durante una conversazione a Haifa -, «tu conosci il mondo arabo meglio di nessun altro, tu ami la loro civiltà, tu che come ebreo e come letterato in lingua araba sei stato capace di conquistare il loro rispetto e ossequio». Mizrahi rifiutò. Rispose che non se la sentiva, che era profondamente grato per l’offerta, che si sentiva sionista, ma nel contempo sentiva anche l’appartenenza al mondo arabo e francese, in egual misura, tre identità fuse insieme, indivise, coabitanti nella stessa persona. E che, se avesse accettato, avrebbe tradito quel 33 per cento di sé che si sentiva arabo. «Se accetto», aveva risposto Toufic a Weizmann, «non potrò esimermi dal compiere azioni che obbediranno alla realpolitik e finirò così per agire contro di loro, gli arabi. Amo Israele, ma questo non voglio farlo». Una scelta che non lo avrebbe ricompensato.
In viaggio a Parigi nel 1959, rifiutò di tornare in Libano per sedersi sui banchi del processo. Fece bene. Nessuno ancora lo sapeva, ma la sua vicenda si inserirà in un clima di crescente tensione e caccia alle streghe scoppiata di lì a poco contro gli ebrei. A fine anni Sessanta, sarebbe giunta la terribile ondata di rapimenti che travolse la Comunità ebraica di Beirut, iniziata con quello del Segretario Generale della Comunità Albert Elia, cognato di Mizrahi e fratello della moglie Marie Elia, rapito dal temibile Deuzième Bureau Syrien mentre andava al Tempio, il 6 settembre 1971, torturato e ucciso dai siriani nelle prigioni di Al Mazeh a Damasco, con l’accusa di aver aiutato a uscire clandestinamente gli ebrei dalla Siria, reato considerato gravissimo. Erano i tempi della vicenda di Eli Cohen, impiccato sulla piazza pubblica a Damasco come spia di Israele, nel 1965, per aver passato informazioni militari allo Shin Bet.
Un clima esacerbato, dentro cui si inserisce la vicenda di Mizrahi. Che tuttavia ha un lieto fine: nel 1962, con nuove elezioni e il cambio di governo, la condanna viene revocata e Toufic Mizrahi riabilitato per insufficienza di prove e non luogo a procedere. Ricevuto nel 1964 dal nuovo Presidente della Repubblica libanese Shar Helou, Mizrahi lascia il Paese a testa alta, per non rimetterci più piede. Finì i suoi giorni a Nizza e a Milano, e dall’Italia continuò a scrivere analisi e opinioni sul Medioriente per i quotidiani francesi, Le Figarò e France Soir. Non avrebbe più rivisto Beirut. Ma questo ebreo-arabo-francese vissuto col mito della poesia araba, di Napoleone e del Kohelet, campione del multiculturalismo, abitato da triple identità armoniosamente conviventi tra loro, oggi sarebbe un testimone, come tanti ancora  insieme a lui, dell’autentico amore con cui molti ebrei aderirono alla civiltà del Paese arabo che li ospitava.