Bruskin, l’archeologo della memoria

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

IMG_0463«L’Europa ha sempre amato le rovine. Ne va pazza. Forse perché il vecchio, l’antico, ci sembra più autentico. Venezia è una gigantesca rovina teatrale, il luogo dove abita quotidianamente la memoria delle rovine. Amo inventare rovine. Pseudo reperti di una civiltà perduta, ad esempio quella sovietica: un’archeologia delle idee; e il defunto Urss non fu costruito sulle idee, anzi sull’ideologia? Sono nato nel 1945, a Mosca, in piena Russia staliniana. Sono figlio di scienziati. Tutti ebrei. Non sapevamo nulla del nostro essere ebrei. Dopo la caduta del muro di Berlino ho cominciato a studiare. A interrogare i libri, ma anche i racconti dei miei parenti. Un’esperienza che è stata una vera “ricostruzione archeologica”, raccogliere e catalogare i reperti di un’identità perduta».
Così parla Grisha Bruskin, 70 anni, oggi considerato tra i più grandi artisti russi contemporanei (insieme a Ilya ed Emilia Kabakov), un artista a cui Venezia e lo Csar – Centro Studi sulle Arti Russe -, dell’Università Ca’ Foscari, dedicano fino al 22 novembre una mostra a Cannaregio, con la serie di statue intitolata La collezione di un archeologo (Chiesa sconsacrata di Santa Caterina). Anche la Fondazione Querini Stampalia ha appena omaggiato Bruskin con Alefbet, (splendido catalogo Terra Ferma), una mostra che espone cinque grandi arazzi la cui ricchezza bidimensionale piena di echi qabbalistici e favolistici fa pensare a bizzarre miniature ebraico-medievali.
Uomini che portano sulle spalle la propria ombra nera. La sagoma gialla di un uomo-bestia dalla testa di rinoceronte. Un chassid avvolto dai tefillim, angeli purpurei con la testa all’ingiù e demoni diafani che scalciano. La mostra Alefbet presenta uno spiazzante bestiario umano-mitologico capace di mettere insieme molti elementi: un orizzonte immaginifico mutuato dalla fantasia di Michail Bulgakov (quella del Maestro e Margherita, in particolare), la tradizione delle fiabe russe, il misticismo ebraico reinventato come segno mitico e arcaico, e infine una semantica che reinventa l’alfabeto ebraico sotto forma di dizionario mitologico. E ancora: ecco la tessitura di 160 personaggi tutti diversi tra loro e collegati l’uno all’altro dalle lettere di uno pseudo alfabeto qabbalistico che fa da sfondo e da collante delle figure. La composizione irretisce e pone domande, non fornisce risposte, ma sollecita il senso di mistero. Le figure allineate sullo stesso piano regalano la netta sensazione di essere davanti a una narrazione coerente, davanti a un insieme che fa parte di un tutto, piccola particella del mistero di esistere e di creare (brava la Fondazione Querini Stampalia, che ha ospitato la mostra fino a ieri).
Allegoria, gusto simbolico e surreale per il fiabesco. Accanto al tema ebraico c’è la riflessione sul mondo sovietico. Opere che offrono una chiave di lettura della nostra storia e del nostro presente. «Il grande errore del comunismo è stato quello di volere che tutti fossero felici per decreto governativo, gioia e contentezza per editto statale». Così Bruskin – che oggi vive a New York -, racconta il mood dell’impero sovietico in disfacimento, un paradiso del proletariato che si è trasformato in un inferno. È nel 1986 che Bruskin avvia la serie di opere Lessico fondamentale, in cui tenta una narrazione del mito sovietico: lo fa a pezzi, lo destruttura, ne fa archeologia appunto, reperto. L’origine del progetto della mostra di Cannaregio, La collezione di un archeologo, va ricercata proprio qui, in Lessico fondamentale, in cui vengono archiviati visivamente oltre 250 normotipi dell’umanità sovietica. Quello che all’epoca sembrava l’affresco di un’antropologia immutabile si è rivelato, pochi anni dopo, la rappresentazione visiva di un sistema in dissoluzione. Da questi ritratti, dopo il crollo dell’Urss, Bruskin ha ricavato una serie di statue spezzate e quasi a grandezza naturale, in mostra a Cannaregio, con un setting che riproduce un campo archeologico, statue frantumate dell’homo sovieticus, del pilota o del soldato con divisa e colbacco dell’Armata Rossa che, come fossero un Apollo del Belvedere o una Nike attica, siano appena state riesumate dalle zolle della terra dove erano state sepolte. Resti archeologici che ci ricordano come a volte le utopie possano trasformarsi in relitti della storia.