di Claudio Vercelli
Storia e controstorie
Da alcuni anni a questa parte l’interesse per l’esperienza politica, sociale e culturale del Bund, l’Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituania, della Polonia e della Russia, fondata nel 1897 e scomparsa, di fatto, negli anni della Seconda guerra mondiale, ha ripreso spessore.
Da argomento di “nicchia”, relegato ad un passato oramai completamente conclusosi, sta tornando nei discorsi e nelle riflessioni, e non solo di una ristretta cerchia di ricercatori, di cultori della materia e di accademici. È non meno vero che in Paesi diversi dal nostro, come la Francia, l’Inghilterra o gli Stati Uniti (Israele costituisce un discorso a sé), le riflessioni e gli studi non si erano mai esauriti. In parte alimentati dall’interesse per la storia ebraica, in altra parte collegati a una più generale riconsiderazione nei confronti di quell’humus culturale, sospeso tra ferreo autoritarismo, messianismo rivoluzionario e vivacissimo confronto politico, che fu offerto dall’Europa dell’Est a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.
Il Bund, in quanto movimento politico ispirato al socialismo, – ma con una solida base territorialista, ovvero un vigoroso ancoraggio alle terre nelle quali era nato e cresciuto, rappresentandone la grande porzione di lavoratori ebrei, operai ed artigiani – , era, al pari del sionismo, un’organizzazione antiassimilazionista.
In altre parole, rifiutava il principio – allora invece molto diffuso, soprattutto nelle organizzazioni del movimento operaio ma anche nei partiti della borghesia liberale – per cui l’unica via offerta agli ebrei per emanciparsi dalla schiavitù del bisogno materiale e dalla morsa dell’antisemitismo fosse il cancellare progressivamente la propria identità, ibridandosi con la società circostante e assumendone i caratteri prevalenti.
A questa visione delle cose, il Bund contrapponeva invece la valorizzazione dell’ebraicità, sia pure in una chiave più politico-sociale che non religiosa e spirituale: la solidarietà militante (che derivava dall’associazionismo sidacale e partitico), la valorizzazione della cultura e della lingua yiddish, l’eguaglianza di minoranza tra le altre minoranze, l’impegno attivo anche nell’autodifesa, soprattutto dinanzi alle continue aggressioni antisemite. Anche per questo, nel volgere di pochi anni, si federò con l’allora Partito socialdemocratico russo, la più potente organizzazione della sinistra socialista, destinata nel corso del tempo a essere egemonizzata dalla componente bolscevica. Ripercorrere le molte vicende che ne caratterizzarono l’esistenza non è quindi facile, almeno in poche righe.
Di fatto il Bund fu attivamente partecipe a molte delle vicende rivoluzionarie che attraversarono i territori dell’Impero zarista. Dopo la Prima guerra mondiale, con la suddivisione dei territori orientali e la rinascita della Polonia, rimase diviso in due grandi tronconi. Quello russo fu presto “normalizzato” dentro il Partito comunista sovietico. Una parte dei suoi dirigenti sarebbe poi stata assassinata durante le purghe staliniste, mentre i militanti di base dovettero accettare l’integrazione forzata nel partito unico. La componente polacca, molto attiva, invece, resistette fino all’occupazione nazista, adoperandosi nella lotta contro i tedeschi. Fin qui, in estrema sintesi, una piccola cornice storica di riferimento. Il rimando al presente, tuttavia, non si esaurisce nel ricordo, a tratti quasi un po’ malinconico, di quel passato.
Così come non si soddisfa solo del suo studio, quasi si trattasse di un lavoro al medesimo tempo archeologico e commemorativo. Il Bund, infatti, aveva tra le sue caratteristiche l’essere un movimento dichiaratamente antisionista. La sua posizione, al riguardo, era chiara, ritenendo l’ipotesi della costituzione di uno Stato ebraico un’impresa non solo non condivisibile sul piano politico, ma anche pericolosamente improduttiva sul versante della sua concreta realizzabilità. Il confronto e lo scontro tra bundisti e sionisti, soprattutto fino alla fine della Prima guerra mondiale, fu un fattore di forte accentuazione del dibattito nell’ebraismo dell’Europa orientale. Le opzioni sul “da farsi” erano peraltro molteplici, richiamando sempre e comunque la necessità di un impegno politico collettivo. Come siano andate le cose è fatto ben noto a tutti. Non per questo il bundismo, a una rilettura a distanza di così tanti anni, può essere liquidato come un’ipotesi perdente poiché velleitaria. Si tratterebbe, nel qual caso, di una lettura tanto impietosa quanto sbagliata.
Detto ciò, va segnalato invece l’uso strumentale che una parte della piccola, ma agguerrita galassia dei movimenti antisionisti italiani va facendo, tanto più durante il Giorno della Memoria, della storia del Bund, contrapponendola a quella del sionismo. In altre parole, la lettura capovolta e manipolatoria del passato induce certuni tra questi a sostenere che il bundismo sarebbe stato vittima sacrificale del disegno sionista, quest’ultimo espressione del colonialismo (un’accusa che è classico dell’arsenale denigratorio) e della volontà del «capitale» (una sorta di terribile Moloch, un Golem malvagio e brutale). I sionisti avrebbero agito come vera e propria lunga mano dell’imperialismo britannico ed europeo, sia contro gli arabi che contro gli stessi correligionari ebrei, per assoggettare alla propria volontà gli uni e gli altri. Non c’è alcun fondamento storico nel rileggere la contrapposizione e la competizione tra le diverse posizioni dell’epoca, vivacemente presenti nel mondo ebraico, come il prodotto di un complotto dei “vincitori” a danno degli sconfitti. La riproposizione di questa versione macchiettista del passato costituisce la parodia del medesimo. Non solo offende i vivi ma, fingendo di volere accogliere in qualche modo la memoria di coloro che furono, ne piega il ricordo a una operazione di bassa cucina ideologica che con la ricerca storica non ha nessun rapporto. Detto questo, possiamo andare oltre a tali manipolazioni, cercando di capire quale sia l’autentico lascito di quella notevole esperienza politica.