di Ester Moscati (ha collaborato Daline Diwald)
A Milano per promuovere il suo nuovo libro Eccomi, Jonathan Safran Foer è stato ospite del Teatro Franco Parenti, il 1 settembre, dove l’incontro è stato allestito da Andrée Ruth Shammah nel foyer, dato che la sala prevista era assolutamente insufficiente ad accogliere tutti coloro che si erano prenotati, e anche così molti sono rimasti esclusi. A Torino, un lungo serpentone umano si era accodato al Circolo dei lettori, il giorno precedente. Lo stesso Jonathan è rimasto stupito da tanto fedele amore, dalle acclamazioni da rock star. L’incontro a teatro, con l’ottimo Marco Missiroli del Corriere a pungolare con competenza e complicità lo scrittore, e le letture di Elia Schilton, è stata un’esperienza indimenticabile. E le parole affettuose dell’editore, che hanno preceduto l’intervista, hanno dato un tocco di magia e umano calore al puro piacere intellettuale dell’ascolto.
Dopo l’intervista in anteprima di luglio, lo abbiamo incontrato per approfondire la sua conoscenza e alcuni temi di Eccomi.
Il suo libro contiene tanti spunti di riflessione e così tanti temi coinvolgenti che è difficile scegliere di che cosa parlare. Scelgo la coppia: Jacob e Julia entrano in crisi per un tradimento ma in realtà il rapporto è già fragile, dopo 10 anni. Non hanno saputo adattarsi alla fine della passione? Si dovrebbe mantenere unita la famiglia – in particolare una famiglia ebraica – anche su altre basi, l’affetto, la solidarietà, la responsabilità condivisa, anche quando l’amore si raffredda?
C’è un momento alla fine del libro quando, al secondo matrimonio di Julia, Jacob le chiede “che cosa dici alle persone che ti chiedono perché abbiamo divorziato?”, lei dice “mah, gli dico solo che eravamo buoni amici ed eravamo bravi a fare i genitori insieme” e lui: “ma questa non sembra una ragione per non divorziare?” E lei dice: “beh, tu che cosa dici alle persone?” “faccio fatica a rispondere a questa domanda. Ma che cosa dici a te stessa?” E lei: “abbiamo divorziato perché abbiamo divorziato”. Non è una tautologia, alcune persone lo fanno e altre no, e spesso le persone non lo fanno quando dovrebbero veramente farlo e a volte lo fanno quando avrebbero dovuto evitarlo. È qualcosa di molto difficile da commentare dall’esterno. E’ difficile fare generalizzazioni a riguardo. Tra l’altro proprio ieri ho sentito una cosa alla radio, Hillary Clinton diceva che tutti le chiedono di spiegare il suo matrimonio e lei risponde “Beh se potete spiegarmi prima il vostro matrimonio, poi posso provare a spiegarvi il mio”. È qualcosa che si può capire solo quando ci sei dentro. È qualcosa cui non si può avere accesso senza esserci dentro. Vorrei aggiungere una cosa. Questa in particolare è una famiglia ebraica ma non penso che nulla della loro esperienza sia esclusivo delle famiglie ebraiche.
Sono stato molto contento del riscontro che sta avendo il libro. Non sai quante volte la gente viene da me e mi dice “è veramente difficile leggerlo perché sembra proprio la situazione che è capitata a me”. Non sono solo ebrei che vengono a dirmi questa cosa, né quarantenni, né solo di Washington…
A volte il modo migliore per affrontare un tema che sta a cuore a tutti, ampio, è attraverso un passaggio molto stretto; la migliore speranza per affrontare un tema di interesse generale è soffermarsi sul particolare. In questo senso il libro va molto sullo specifico, non solo per gli ebrei ma riguarda anche che cosa significa essere americani in un determinato momento, avere un determinato background socioeconomico… Penso che a differenza dei miei primi romanzi, questo vada molto nello specifico, eppure ho l’impressione che sia stato accolto in modo più intimo, familiare. È un tema universale descritto attraverso una lente più ravvicinata.
La distruzione di Israele. Questo spettro, che per un ebreo è un incubo, è in incipit del suo romanzo, ma poi non se ne parla per 300 pagine. Perché questa scelta? Suspense? O vuole dire altro?
Gran parte della scrittura non è frutto di una scelta specifica. All’inizio scelgo proprio di non scegliere, ma di seguire l’intuizione, e cose che mi sembrano poter andare bene a un livello primitivo. Ma poi se decido di mantenerle quella è una scelta deliberata. Quindi la scrittura è composta da due parti differenti, la prima delle quali è l’istinto e l’intuito e dove non mi preoccupo di come vengano interpretate, e come funzioneranno nel contesto del libro. Mentre la seconda fase è assolutamente deliberata; in quel momento penso molto attentamente non solo a quello che dovrebbe esserci o non esserci, ma anche dove inserirlo e in che modo farlo funzionare. C’è stato un momento in cui ho pensato di chiamare il libro “La distruzione di Israele”. Uno dei motivi per cui mi piaceva l’idea è esattamente quello che dicevi tu, una cosa molto grande, ma allo stesso tempo sviante, perché non compare per metà del libro e anche quando compare è realmente importante nella misura in cui solleva la domanda sull’identità e porta fuori la trama familiare. E spero che faccia scaturire importanti domande sull’essere un ebreo americano, o un ebreo israeliano, o semplicemente sul posto che Israele ha nel mondo. Ma alla fine non è un libro che parla della distruzione di Israele. Penso che alla fine sia un libro che parla della famiglia, dello stare insieme, di come le famiglie rimangano o meno unite.
Lei ha scelto di pubblicare il suo libro prima di tutto in Italia, con Guanda, prima ancora che negli USA. Perché?
La ragione è perché me lo hanno chiesto ma poi la domanda successiva sarebbe perché dire sì, visto che me lo hanno chiesto anche altre case editrici. Il motivo per cui me lo hanno chiesto è perché un sacco di persone leggono la letteratura in inglese nel mondo, e quindi gli editori stranieri perderebbero molti lettori, che acquisterebbero l’edizione originale se fosse pubblicata prima. Questa è una delle ragioni. Non l’ho mai fatto in precedenza, di far uscire un libro prima all’estero che in America. Ho detto di sì per un paio di motivi: la relazione speciale con Guanda che ha comprato il mio primo libro Ogni cosa è illuminata anche prima degli editori americani. Il che è stata una cosa molto rischiosa per loro. Questa cosa ha generato in me non solo un grande senso di lealtà ma mi ha anche dato una sorta di investitura, una conferma del mio ruolo. Mi ha fatto sentire che le cose sarebbero andate bene. Perché pubblicare un libro è una esperienza che fa molta paura, anche e forse soprattutto ora. Quindi ho deciso di gestire la pubblicazione in questo modo soprattutto per lealtà, ma anche per procedere in una direzione che mi desse sicurezza. Non avevo idea di come i lettori italiani avrebbero accolto il libro; sono stato molto contento e sorpreso non solo dalla positività ma anche dalla profondità della risposta, dal tipo di domande che le persone mi hanno rivolto. Le cose che hanno destato maggior interesse sono esattamente le cose che hanno interessato di più me quando stavo scrivendo il libro e onestamente questa cosa è molto rara. Un libro che ho impiegato 11 anni a scrivere, tanto sudore, lacrime e sangue, e poi qualcuno avrebbe potuto farmi una domanda frivola, chiedermi una cosa banale, ma invece la mia esperienza qui è stata molto profonda, e questo mi rende molto felice. Quindi sapevo già che era la cosa giusta da fare, ancora prima di farla, non sapevo però ancora “quanto” lo sarebbe stata.
È veramente contento di incontrare i suoi lettori in Europa, pensa che siano uno scambio importante dal punto di vista umano e creativo? O uno scrittore in realtà dà tutto se stesso attraverso le sue pagine, le sue parole?
È curioso, ma conoscere i lettori è più importante per me che per i lettori stessi. Presentare il libro è tutto quello che io devo fare ed è comunque difficile che io possa rispondere ai lettori in un modo che aggiunga molto a ciò che ho già scritto. Mentre l’incontro può essere divertente e interessante e vado anche io ai reading dei miei libri. È sempre bello conoscere lo scrittore e conoscere la persona che c’è dietro al libro, ma la verità è che penso che non siano i lettori a guadagnarci così tanto, mentre io sì! Io sono stato da solo con il libro e con quello che penso sia l’argomento del libro, che non è esattamente quello di cui il libro parla realmente. Il significato del libro non appartiene a me ma ai lettori. Perciò, quando vengo a Milano, Torino o Mantova e le persone mi dicono – è successo proprio ieri ad esempio! – “l’argomento principale del libro è la diaspora, l’essere altrove”. Era una cosa alla quale non avevo pensato, ma una volta che una persona me l’ha detto, mi è sembrata così palesemente vera. Quindi il libro ha diversi significati che sono veri, ma che non ho precisamente inserito io, o di cui non mi ero accorto. Prima di essere pubblicato, il libro ha solamente una serie di significati, ma quando viene lanciato nel mondo diventa molto più ricco e profondo, non tanto perché viene interpretato in tanti modi diversi, quanto più perché recepisce le esperienze personali del lettore. Quindi per me è interessante quando un lettore ha commenti come quello della diaspora, ma è ancora più interessante quando un lettore ad esempio mi dice: “Ho avuto una conversazione con mio figlio, e mi ha ricordato una scena del libro!”. È interessante quando il libro diventa un punto di partenza per una conversazione, piuttosto che d’arrivo.
Lei usa nel suo libro frasi sessualmente crude ed esplicite. Si è posto il problema di urtare la sensibilità di lettori ebrei religiosi? O ha voluto citare il Lamento di Portnoy, anche se oggi queste pagine non hanno più la funzione di scuotere il perbenismo borghese?
Secondo la mia personale esperienza, i lettori ebrei sono molto meno “perbenisti” di tanti altri lettori e meno preoccupati da queste questioni. C’è una scena del libro in cui Jacob è un ragazzino ed è con suo padre al museo di storia naturale. Suo padre gli sta spiegando un diorama e come l’animale sia messo in una certa posizione in modo che non sia visibile quello che c’è dietro, dove si vedono i fori dei proiettili e le ferite. Il mio desiderio era che in questo libro si vedesse dall’altra parte. “L’altra parte” è spesso brutta. Avrei potuto scrivere un libro più “grazioso” e affascinante. Penso che i miei primi due libri siano più graziosi e affascinanti. Ma uno dei temi di questo libro è proprio la capacità di condividere, anche le cose difficili, e il prezzo che si paga quando si è incapaci di condividere in una relazione o in famiglia. Jacob e Julia sono stati sposati per quindici anni. Nel libro scrivo di come lui vada al bagno ogni notte per mettere una supposta, di nascosto. Ed è un peccato. Perché due persone non riescono a condividere? Ed è una diversa interpretazione di Eccomi, Hinneni: come possiamo essere semplicemente presenti. Sono sicuro che anche le persone che non sono a loro agio con quel linguaggio fanno sesso, hanno le loro fantasie; quindi la domanda non è se qualcosa è vera o no, la domanda è “cosa dovrebbe esser condiviso e cosa no”. Qual è il prezzo che paghi per condividere un contenuto del genere? Sicuramente il prezzo che si paga quando non si condivide è altissimo. Detto ciò, i miei figli hanno 10 e 7 anni e non gli farei leggere il mio libro. È un libro per adulti, non per tutti.
Un altro tema del libro è il senso di responsabilità, Responsabilità dei genitori verso i figli e anche responsabilità degli ebrei verso Israele nel tragico momento della guerra. Anche in “Se niente importa” c’era questo senso di responsabilità, verso l’alimentazione di suo figlio e verso un mondo migliore. Lei ha le responsabilità di aver fatto diventare vegetariane molte persone – inclusa me –. Si aspettava questo successo? Di aver instillato in tante persone questa consapevolezza verso gli allevamenti intensivi e l’ambiente in generale?
Nessuno se lo aspettava. I miei editori italiano, tedesco, spagnolo, non volevano nemmeno pubblicare il libro, sotto sotto, ma per lealtà verso di me mi hanno detto ok, lo pubblichiamo. Ma pensavano che sarebbe semplicemente sparito. Invece in molti paesi è il mio libro di maggior successo, più dei miei romanzi. In Germania è stata una cosa pazzesca e sono tutti rimasti molto sorpresi. E non penso che sia legato al fatto che sono tutti pronti a diventare vegetariani. Ma chiunque può rendersi conto che è successo qualcosa di importante riguardo al cibo, che è scomoda e di cui vogliamo trovare un modo migliore per parlarne. Uno dei motivi per cui penso che il libro sia andato bene è che ho affrontato il progetto con molta umiltà. Non ho sempre le idee chiare, non sono sempre costante, per me si tratta di un punto di partenza e non dico agli altri “fai quello e non fare questo”. Quindi il libro era un buon punto di accesso ad un argomento che interessa sempre più persone. Ho preso veramente me stesso come punto di partenza.
Jacob, il protagonista di “Eccomi”, è uno scrittore di serie televisive, mi sono chiesta se c’è qualcosa di autobiografico o se sei un fan delle serie tv. Se questo senso di suspense in “Eccomi” è colto anche dai telefilm che oggi sempre più lo sfruttano per agganciare lo spettatore.
A dire il vero ho passato due o tre anni a creare una serie televisiva per la HBO. Eravamo proprio sul punto di girare, avevamo tutto, gli attori, era pronto a partire. E poi ho avuto questa specie di crisi e ho pensato “non voglio farlo davvero”. Non voglio essere in quel mondo. Lo rispetto, è fantastico, mi piace la televisione, ma non era quello che volevo fare della mia vita. Ma ho avuto bisogno di arrivarci davvero vicino per capirlo. Questo è successo tre o quattro anni fa e poi ho cancellato tutto. In quel momento, forse per la prima volta, sento di aver deciso, in maniera molto chiara, che volevo essere solo un romanziere. Tecnicamente sono un romanziere già da 15 anni ma non perché io abbia mai preso questa decisione. È sempre stato un po’ per inerzia, o fortuna diciamo, o chissà cos’altro. Quindi è curioso che tu mi abbia fatto questa domanda.
Sai, questo libro, Eccomi, in realtà non ho impiegato 11 anni per scriverlo. Ce ne sono voluti tre. Mi ci è voluto solo molto tempo per iniziare e parte del processo che mi ci ha portato è stato scrivere questa serie tv.
Il padre di Jacob, Irv, sarebbe molto orgoglioso di Jonathan…