di Daniele Liberanome
Una mostra a Palazzo Reale racconta l’arte della giovane ebrea berlinese che affidò la sua vita a centinaia di tempere. In Vita? o Teatro? c’è tutta la forza dell’Espressionismo tedesco
Morire a 26 anni significa rimanere giovani per sempre. Così Charlotte Salomon, trucidata ad Auschwitz, simboleggia i ventenni vissuti in quel periodo, che appartenevano alla buona borghesia ebraica tedesca e possedevano un talento artistico coltivato secondo i canali allora consueti. Una testimonianza unica, che va oltre la tragedia della Shoah e illustra uno dei mondi che distrusse. È con questo spirito che ci si può avvicinare alla mostra dedicata dell’opera unica di Salomon ,“Vita? O teatro?”, aperta a Palazzo Reale fino al 25 giugno, e in cui sono esposti un centinaio di tempere su carta – circa un settimo di quelle prodotte e non distrutte da Charlotte stessa.
Ne emerge l’inquietudine profondissima che attanagliava la classe sociale di Charlotte dopo aver perso i suoi punti di riferimento, prima e certamente dopo l’ascesa di Hitler. La catena di suicidi che colpì la famiglia Salomon – in particolare il ramo materno oltre alla madre stessa -, non era frutto isolato di una depressione ereditaria. Fin dalla fine dell’Ottocento e ancor più dopo la Prima Guerra Mondiale, il tasso degli ebrei tedeschi assimilati che si toglievano la vita era alto e crescente, frutto anche della delusione per un’integrazione mai completa. La loro era una vita spaccata fra due identità, una – ebraica – nascosta ma presente, l’altra – tedesca – voluta ma non accettata dagli altri, che si traduceva in un’esistenza mai del tutto appagante. Legata a questi sentimenti era la pratica, diffusa fin dall’Ottocento, di scrivere diari o romanzi autobiografici, come “Vita o Teatro?” – un modo per dare significato alla propria vita, al di là del successo lavorativo, e alla nuova figura ibrida di tedesco-ebreo.
La famiglia di Charlotte non rientrava fra quelle che avevano accumulato ricchezze davvero importanti grazie allo sviluppo economico del Paese legato alle politiche di Bismarck. Il padre era un professionista di successo, un dottore di grido, niente di più, eppure capace di creare i presupposti per una vita agiata grazie al proprio lavoro – come molti altri suoi contemporanei. Ma non bastava. La perdita di punti di riferimento era palpabile a livello di tessuto familiare, sul punto di collassare. La matrigna, pur stimata da Charlotte, intratteneva un dubbio rapporto con il giovane insegnante di canto della ragazza, senza che lei lo considerasse scandaloso. Il problema era casomai che Charlotte si innamorò di lui e così diventò una sorta di concorrente nascosta della matrigna senza che il loro rapporto ne risentisse. Intanto il padre appare come una figura amata ma niente affatto carismatica, perfino sottomesso alle governanti che puniscono la bambina. Il nonno e la nonna, troppo autoritari e legati a un’educazione di altri tempi, non vengono mai descritti con affetto. Eppure Charlotte attribuiva una tale importanza al matrimonio che, proprio per celebrarlo, si espose e venne catturata e spedita ad Auschwitz.
In tutto ciò, il legame con l’ebraismo era praticamente inesistente, nonostante il padre e ambedue le madri fossero ebrei: il secondo matrimonio descritto da Charlotte venne celebrato in Comune e in casa si preparava l’albero di Natale e si cantavano i tradizionali motivi della festa. Nella mostra Vita? O Teatro? non mancano riferimenti al cristianesimo, a volta a sproposito: il precetto di amare il prossimo come se stessi è attribuito al Nuovo Testamento. Della Torà neppure una parola. Ma questa borghesia ebraica benestante, traballante al suo interno, era coinvolta appieno nella vita culturale, anzi ne era promotrice. Da “Vita? O Teatro?” emerge la vastità degli orizzonti di famiglie come la Salomon, la profonda convinzione che vada coltivata l’interdisciplinarietà piuttosto che puntare alla perfetta conoscenza di una qualche materia.
L’opera di Charlotte è in realtà una pièce teatrale; non scritta, come sarebbe ovvio, ma disegnata, aggiungendo delle frasi qua e là. La giovane artista, pur alle prime armi, si preoccupò di abbinare alle tempere pezzi musicali, e il legame note-pittura è tipico di tutto l’Espressionismo tedesco di quel tempo, Kandinskij in testa. È quel movimento di avanguardia la fonte di ispirazione di Charlotte. Fin dalla sua formazione in Accademia – come attesta una tempera purtroppo non esposta a Milano – le venivano proposti a modello i dipinti di Van Gogh, non di qualche artista convenzionale ottocentesco. È quindi ovvio che, come gli espressionisti tanto apprezzati da giovani come lei e tanto odiati dai nazisti, attribuiva particolare importanza al colore come veicolo dei sentimenti e delle emozioni. Sono i toni scuri a diventare sinonimo di tristezza e riflessione, non gli atteggiamenti delle figure che diventano sempre più irrilevanti con l’avanzare dell’opera. Il colore è steso sempre più con poche pennellate, sempre più nervose, che trasmettono sensazioni di inquietudine e sofferenza. Da artista tipica di quegli anni, Charlotte pensava a sperimentare senza scioccare: con l’andare del tempo, lasciò in bianco sezioni del foglio in modo che le parti colorate colpissero ancora di più, e il legame frasi-pittura diventò sempre più intenso con la tendenza a inglobare le parole nel disegno. Sono tutti questi spunti utilizzati dalle avanguardie artistiche di quegli anni e più ampiamente sfruttati nel dopoguerra, spesso senza quella profondità e quell’ampia visione che caratterizzava i primi anni del Novecento.
Charlotte, così calata nel suo mondo e così ricca di talento, è solo una dei sei milioni che sono stati trucidati ed è una di coloro che, partendo da solide basi culturali, avrebbe potuto indirizzare l’arte verso un orizzonte diverso.