di Pia Jarach
Ho conosciuto Shlomo Venezia sull’aereo per Katowice (Alta Slesia, Polonia meridionale) il 4 novembre 1995. Con noi a bordo, anche Nedo Fiano, Elisa Springer, Ida Marcheria, Romeo Salmonì, Settimia Spizzichino e Piero Terracina, alcuni dei loro figli, e un paio di collaboratrici del Cdec, mio marito e mia sorella. All’aeroporto ci attendevano Marcello Pezzetti e Ruggero Gabbai con una piccola troupe cinematografica. Destinazione: Auschwitz. Shlomo e i suoi compagni sopravvissuti avevano accettato di tornare a testimoniare dopo 50 anni proprio dove era stato l’inferno, dove avevano perso famiglia e amici, dove avevano vissuto l’incubo che non li avrebbe più abbandonati per il resto dei loro giorni. Si trattava davvero di un grande atto di coraggio e di amore, dell’inizio di un impegno che per alcuni di loro è poi divenuto ragione di vita. Un viaggio per riaccendere la memoria che rischiava di rimanere sepolta fra le macerie dei Krematoria, dedicandola soprattutto alle nuove generazioni.
Alloggiavamo in un albergo affacciato sulla stazione ferroviaria di Oswiecim, nome polacco di Auschwitz e se lo sferragliare continuo dei treni aveva un che di sinistro per noi, per loro significava addirittura tornare in diretta agli strazianti viaggi che li avevano condotti lì da ogni angolo d’Europa, condannati senza colpa e senza appello all’eliminazione sistematica. Nessuno riusciva a dormire. La prima notte eravamo perciò ancora tutti svegli quando è giunta la notizia del mortale attentato a Rabin. Non dimenticherò mai quei momenti di smarrimento e d’incredulità, in quel luogo, unita a quegli uomini e a quelle donne così forti e così fragili al tempo stesso: è stata la prima di una serie di esperienze che in quel breve viaggio mi hanno cambiato la vita, convincendomi che anche io potevo fare qualcosa per la Memoria.
Le riprese sono iniziate la mattina seguente, in un freddo già intenso punteggiato di nevischio. Marcello Pezzetti li guidava con pazienza uno ad uno per il campo: aiutandoli a riconoscere luoghi ormai in rovina, a ricollocarsi nelle loro baracche smantellate per farne legna da ardere nel dopoguerra, a camminare sui viali resi pacifici dalla bonifica ma che ai tempi della loro prigionia erano stati solo fango e disperazione; accompagnandoli dove erano stati spogliati, rasati, derisi e marchiati indelebilmente nella carne e nell’anima dalle loro nuove identità numeriche; spingendoli benevolmente a riaprire porte e ferite chiuse da tanti anni per farsi consegnare le loro preziose memorie da conservare per sempre nell’archivio del Cdec.
Da quelle e da altre interviste realizzate fra i 90 sopravvissuti italiani ad Auschwitz ha poi preso vita il docu-film Memoria, presentato con successo da Ruggero Gabbai al Festival di Berlino e che ancora oggi è uno dei documenti più autorevoli sull’argomento.
L’atmosfera che si era creata fra noi ci ha legato in un modo del tutto unico e profondo. E fra i tanti racconti ascoltati, quelli di Shlomo erano senza dubbio i più duri da reggere. Ma lui parlava con una tale onesta schiettezza della sua esperienza nei Sonderkommando da renderci possibile ascoltarlo con pari semplicità. Perché chi è sopravvissuto allo sterminio si è poi sentito colpevole a vita, quasi macchiato dall’infamia di non essere diventato cenere come i suoi cari. Ho ascoltato in tante interviste questo peso insostenibile riaffiorare sulle labbra di uomini e donne la cui unica colpa era stata quella di avere un destino inspiegabilmente diverso da quello di altri milioni di fratelli e sorelle di ogni età e provenienza. Nessuno poteva dirsi davvero uscito da quei cancelli e da quel filo spinato che quotidianamente continuava a graffiarli con prepotenza.
Figuriamoci uno come Shlomo, che era finito dritto nel cuore della macchina dello sterminio. Ed era rimasto vivo.
Shlomo era giovane e forte quando arrivò ad Auschwitz- Birkenau e fu scelto come schiavo proprio nei Krematoria. Lì vide morire migliaia di innocenti senza poter far nulla, dovendo sottostare a brutali compiti assegnatigli dalla macchina che presto lo avrebbe a sua volta inghiottito, in uno dei suoi forni mai sazi che fra l’altro era costretto spesso a “pulire” per mantenere in efficienza. Aveva però cercato di ribellarsi insieme ad altri compagni per sabotare i quattro impianti di messa a morte verso la fine del 1944. La rivolta fallì nel sangue di molti di loro, ma di lì a poco i Krematoria furono fatti esplodere dagli stessi nazisti per cancellare i segni della “soluzione finale del problema ebraico”: lo sterminio industrializzato cessò, l’Armata Rossa stava arrivando e il campo doveva essere evacuato il più in fretta possibile da tutte le “prove viventi” ancora in grado di camminare. Shlomo fu così avviato alla marcia della morte verso i campi di concentramento tedeschi e anche a quella sopravvisse. Come sopravvisse ai numerosi campi in cui transitò e ai tentativi di eliminarlo perché troppo scomodo testimone.
Le sue condizioni alla fine della guerra erano così drammatiche che gli ci vollero sette anni di sanatorio per potersi riaffacciare alla vita. E una donna speciale come sua moglie Marika, che l’ha amato e sostenuto con tenacia riscattandolo dalle infermità provocate dalla prigionia nei campi e riuscendo a far riemergere le sue qualità migliori. Marika gli ha dato anche tre splendidi figli di cui Shlomo è stato sempre molto orgoglioso e l’ha accompagnato ovunque sia stato chiamato negli ultimi vent’anni per testimoniare. La sua vecchiaia è stata allietata da nuore e nipoti e da migliaia di ragazzi che l’hanno letteralmente adottato con affetto e rispetto dopo essere stati con lui ad Auschwitz o averlo ascoltato nelle scuole di tutta Italia.
Insieme a Nedo Fiano è stato consulente di Roberto Benigni quando realizzò il suo La vita è bella; ha rilasciato interviste in tutto il mondo; ha pubblicato un libro sulla sua storia e ha offerto importantissimi contributi nella ricostruzione storica della più impressionante fabbrica della morte, di cui ancora oggi molti si ostinano a negare l’esistenza.
Oggi, dopo sessantasette anni dalla sua liberazione, Shlomo è partito per il suo viaggio definitivo accompagnato fortunatamente dall’amore e dal rispetto. Ci mancherà fisicamente il suo sguardo buono, il suo abbraccio paterno e la sua capacità di raccontare l’irraccontabile con la semplicità diretta di chi non sa nascondersi dietro le parole. Dopo aver visto e vissuto il peggio di ciò che l’uomo può fare all’uomo è riuscito a non capitolare: combattendo da solo la notte con i suoi incubi ma riemergendo ogni giorno nei principi con cui la sua mamma, giovane vedova con cinque figli, aveva fatto in tempo a educarlo saldamente e a metterlo al riparo dal male prima di essere uccisa con le sue figlie più piccole all’arrivo ad Auschwitz, l’11 aprile del 1944: “essere onesti e rispettare gli altri”.
Questo ricordo Shlomo l’ha messo nella tenera dedica al suo libro, scritta con amore alle sue due famiglie, quella di prima della guerra e quella del dopo, e con questi principi ha cresciuto i suoi figli lontani dall’odio in cui sarebbe stato tanto comprensibile scivolasse. Ha saputo raccontare come un cronista scrupoloso anche i particolari più al limite dell’umana accettazione, perché la sua profonda onestà non gli consentiva diversamente. E se adesso conosciamo tanto di ciò che è stato e che si è cercato di cancellare lo dobbiamo anche a lui.
Ciao Shlomo e grazie.