di Vittorio Robiati Bendaud
L’ascesa di Wahabiti e Salafiti, le spinte “moderniste” dell’Islam che accrescono l’orizzonte vessatorio delle Comunità ebraiche, fino alla conversione forzata degli ebrei della città di Mashad, in Persia. Inizia il “Grande Sradicamento” degli ebrei sefarditi in Terra d’Islam
Samarcanda e la via per l’Oxiana, il mausoleo color miele di Samany a Buchara e le madrase della Transoxiana. E poi le impervie vie della seta dominate dai feroci khan di Khiva, la città dalle mille cupole. Nella sua spinta espansiva verso est, l’Islam incrocerà le steppe desertiche dell’Asia Centrale arrivando fino alla valle dell’Indo, al fiume Oxus, a Timur lo zoppo (Tamerlano), potenza e nefandezze di un impero sterminato che tutto travolgerà sulla sua scia. Un Islam che muta e si frammenta in nuove declinazioni, e che qui occorre spiegare, in sintesi. Nel corso del XVII secolo, parallelamente alla conquista portoghese -e, successivamente, danese e inglese, dell’India- si svilupparono movimenti di resistenza islamica, di purificazione e di rinnovamento religioso: tali furono i propositi della confraternita sufi in Asia Centrale dei Naqshabandi. Tra i più eminenti interpreti di tale movimento spicca la figura di Shah Waliullah di Delhi (1703-65), grazie al quale l’intransigente spirito di rinnovamento militante nell’ordine Naqshabandi dall’India si diffuse in Medio Oriente. Per converso, il mistico e viaggiatore ‘Abd al-Ghani al-Nabulusi (1641-1731), pur musulmano arabo del Vicino Oriente – originario di Nablus-, aderì all’ordine indiano.
Shah Waliullah, per il quale l’Arabia coincideva con la fonte dell’Islàm autentico, originario e incontaminato, nel 1730 si recò colà per approfondire i suoi studi teologico-giuridici. L’idealizzazione mistica degli arabi, della loro lingua e della fede avita, suscitò il plauso e il consenso immediato di maestri e compagni di studi; tuttavia, non vi sono prove certe di un incontro tra Shah Waliullah e il suo contemporaneo Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-87), fondatore della corrente Wahhabita, per certi versi tangente con le idee dei Naqshabandi, che si riallacciava idealmente alle dottrine della tradizionale scuola giuridica islamica Hanbalista, contraddistinta da estremo rigore. Quest’ultimo, nel 1744, con l’ausilio del locale principe della famiglia dei Sa‘ùd, diede inizio a una campagna di intransigente rinnovamento islamico: i principi sauditi di Dar‘iyya aderirono al movimento di al-Wahhab e conquistarono celermente l’Arabia centrale e orientale, trovandosi così a fronteggiare direttamente l’Impero Ottomano, il cui sultano era ritenuto da costoro eretico e usurpatore. Il Sultano concordò con il Pascià di Egitto, Muhammad ‘Ali, una controffensiva volta a distruggere la potenza wahhabita (ricostituita successivamente al 1840 dall’emiro Faysal), come puntualmente accadde nel 1818 con la decapitazione a Istanbul dell’emiro saudita. La fede wahhabita, tuttavia, non solo sopravvisse ma addirittura prosperò, destinata a rinascite successive e ad esercitare notevoli e sempre più radicate influenze, dirette e indirette, in seno all’intero universo islamico. Il movimento wahhabita rappresentò, in seno all’Islàm, la prima radicale contestazione religiosa islamica – a maggioranza araba-, all’Impero Ottomano – come tale turcomanno e non arabo-, mentre, nei confronti del mondo non musulmano, infuse nuove energie nella lotta contro gli invasori europei e contro le minoranze presenti in terra di Islàm. L’ascesa del Wahhabismo, infine, coincise con un rapido e perenne aumento di violenze tra Sunniti e Sciiti.
Nel secondo quarto del XIX secolo Ahmad Brelwi fronteggiò nell’India settentrionale gli inglesi e i sick, mentre Samil contrastò i russi nel Daghestan e ‘Abd al-Qadir, in Algeria, si oppose i francesi. Tutti e tre furono capi religiosi: Brelwi un wahhabita iniziato all’ordine Naqshabandi; Samil aderiva anch’egli alla confraternita Naqshabandi; ‘Abd al-Qadir, infine, era un qadarita. Successivamente, sentimenti ed idee panislamici –in quanto tali “riformisti” e “modernisti”- vennero ripresi, ulteriormente sviluppati e radicalizzati, da Jamal al-Din al-Afghani (noto anche come al-Asadabadi), che insistette molto sulla “solidarietà islamica” e sul concetto mistico-politico di jihàd, ivi inteso come “guerra santa”. Per Jamal al-Din al-Afghani (1838-97) l’Islàm era sia fede sia, anzitutto, civiltà, quest’ultima intesa come potenza mondiale e visione del mondo, richiedente obbedienza e fedeltà. Tale prospettiva venne recepita appieno dal suo compagno e discepolo egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905), gran muftì di Egitto ed esponente di primo piano, assieme al maestro, di quel “riformismo” islamico noto come scuola “salafita”.
In siffatto variabile e potenzialmente esplosivo contesto generale, che ne fu degli ebrei in Terra di Islàm tra il XVIII e il XIX secolo? Nel 1740 Rav Haìm Abulafia da Smirne si recò in Terra di Israele e, su invito del governatore islamico della regione, lo Shaykh Dahir al-Amr, assieme a circa un centinaio di famiglie ebree, prese possesso della Galilea e, in particolare, della città di Tiberiade, coltivando vite e ulivo.
Nel 1806 il belga Louis Frank, medico personale del Bey di Tunisi, riporta che gli ebrei locali, in quanto dhimmi, pur pagando una tassa che avrebbe dovuto garantire loro tolleranza e protezione, erano normalmente vittime di insulti, molestie e violenze. Frank annota inoltre che gli ebrei di Tunisia sopportavano “con sconvolgente rassegnazione” la vita difficile cui erano obbligati. Numerosi storici appuntano che non vi fu decade del XIX secolo in cui gli ebrei che dimoravano nelle Terre dell’Islàm non avessero esperito violenze, anche acute. Vi furono accuse di “crimine rituale” e persecuzioni nel 1813 a Hebron, nel 1814 nella città di Baku sul Mar Caspio, nel 1843 a Damasco. Nel 1820, in Marocco, il quartiere ebraico di Fez venne invaso da una tribù islamica che stuprò le donne ebree della locale comunità, mentre gli uomini furono torturati, in alcuni casi a morte, perché rivelassero dove erano nascosti i beni degli ebrei.
Nel 1818, ad Akko, Pashah ‘Abdallah accusò il devoto e celebre esponente della locale comunità ebraica, Haìm Farhi, di aver fatto edificare la sua sinagoga privata più alta della locale moschea, cosa severamente proibita secondo molti interpreti della Sha‘aria. Fu torturato, condannato a morte, ucciso e i suoi resti gettati in mare. Al contempo, la seconda decade del XIX secolo fu così amara per gli ebrei di Baghdàd, sotto il governo di Daùd Pashah, che in molti emigrarono in India, pur di scampare a trattamenti inumani che continuarono per almeno i quindici anni consecutivi. Uno degli eventi più drammatici e crudeli fu la conversione forzata, accompagnata da terrore e violenze, degli ebrei della città persiana di Mashad nel 1839, da cui molti fuggirono, cercando riparo in Afghanistan. Nel 1834, a Tangeri in Marocco, venne pubblicamente martirizzata, nonostante suppliche che giunsero dalle comunità ebraiche di tutto il mondo, la diciassettenne Sol Hachuel (conosciuta anche come Zulaika Hajwal), perché rifiutò di convertirsi all’Islàm.
Sia il viaggiatore inglese John Lowthian nel 1843 sia, una decina di anni dopo, il geografo italiano Ermete Pierotti descrissero le ignominiose e crudeli condizioni di vita che soffriva la nutrita comunità ebraica di Gerusalemme, come se, come annota Pierotti, alla popolazione locale musulmana “offendere e molestare un ebreo risultasse atto meritorio verso Dio”. Nel 1854 sul New York Daily Tribune Karl Marx condannò, portando per la prima volta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su questa tematica, lo stato di violenta abiezione in cui per lo più vivevano gli ebrei residenti nelle Terre di Islàm.
L’unico baluardo a difesa degli ebrei, anche in relazione all’antisemitismo violento che era inveterato costume di molti cristiani arabi, fu rappresentato quasi sempre dal Sultano Ottomano. Il Sultano ‘Abdùl Mejid, ad esempio, vietò energicamente la circolazione di stampa antisemita. Dichiarò il Sultano: “gli ebrei possiedono gli stessi vantaggi e privilegi che sono garantiti alle altre Nazioni (Millet, ossia “minoranze etnico-religiose”) sottomesse alla Nostra autorità. Il Millet ebraico deve essere protetto e difeso”.
Il successore di ‘Abdul Mejid, il Sultano ‘Abdul ‘Aziz, il 12 dicembre 1875, dopo più di un millennio di dhimmitudine istituita dal Corano e dal Patto di ‘Umàr, successivamente ratificata e alimentata da secoli di giurisprudenza religiosa islamica, per la prima volta impresse una svolta di apertura, segno di un’attitudine più tollerante e inclusiva, maggiormente attenta alle minoranze etnico-religiose dell’Impero Ottomano. Questo si tradusse in coinvolgimenti più ampi degli ebrei nelle attività politiche e culturali dell’Impero; in una maggiore integrazione tra ebrei, cristiani e musulmani; in una crescita demografica sensibile delle comunità ebraiche; nel prolificare, infine, di scuole e di stampa ebraica.
Tuttavia questo accadde quando l’Impero Ottomano era già in profonda crisi. Le “aperture” pertanto furono ambivalenti e i sentimenti antiebraici delle popolazioni sia arabe sia iraniche spesso perdurarono; gli armeni, beneficiari anch’essi delle aperture, furono perseguitati e uccisi a migliaia verso la fine del XIX secolo, ben prima del Genocidio Armeno del 1915. Infine, i movimenti islamici riformisti, al pari di certo Islàm tradizionale, ravvisarono rabbiosamente nelle aperture di ‘Abdùl ‘Aziz un tradimento del Corano, dell’Islàm e dei musulmani. Era iniziato, verso le ultime tre decadi del XIX secolo, ciò che lo storico Georges Bensoussan definisce “le grand déracinement”, ossia il grande sradicamento degli ebrei sefarditi dalle Terre di Islàm.