Demografia e futuro, tra ortodossia e laicità

Personaggi e Storie

di Ilaria Myr

“Who is a jew?” Chi è un ebreo? Un’immensa domanda – di quelle “da un milione di dollari” – che l’Economist si pone nel numero dell’11 gennaio, aprendo un’inchiesta su un argomento sensibile e allo stesso tempo complicato come è da sempre quello dell’identità ebraica. Del resto, non è la prima volta che il prestigioso settimanale economico britannico si occupa di “cose ebraiche”: già nell’ottobre del 2012 il Bollettino aveva ripreso una sua inchiesta, intitolata “Vivo e vegeto”, sullo stato di salute dell’ebraismo attuale.

“Che cos’è un ebreo? – si chiede oggi il prestigioso settimanale – . Questa è una domanda che sta diventando sempre più pressante per gli ebrei di tutto il mondo. A molti sembra una questione che riguarda la sfera religiosa, ma in realtà è strettamente legata alla storia, alla politica israeliana e ai ritmi della diaspora.

Affrontare questo argomento significa decidere se l’assimilazione è una minaccia mortale, come pensano molti ebrei, oppure se essa è invece un fenomeno a cui adattarsi. Ma sarà la battaglia su questa risposta a determinare i rapporti fra la società israeliana e gli ebrei di tutto il mondo, e a dare la misura e la complessità della comunità ebraica globale”.

Come è noto, esistono oggi diverse posizioni sulla questione. Ci sono gli ebrei ortodossi, per cui la soluzione è tanto semplice quanto antica: sei ebreo se tua madre è ebrea, o se la tua conversione all’ebraismo è conforme alla Halachà, la legge ebraica. Questo però, può creare qualche perplessità in chi ebreo non è: l’ebraismo sarebbe cioè solo determinato dalla nascita e non dalla fede o dal comportamento. Gli ebrei, per esempio, possono anche essere atei, pur rimanendo ebrei. Una formula che però, in un mondo laico può risultare problematica. “Qualche anno fa – continua l’Economist – le scuole ebraiche statali britanniche furono obbligate a cambiare le loro norme di ammissione dopo che un tribunale aveva giudicato che violavano il Race Relations Act. E in effetti le leggi halachiche spesso turbano gli stessi ebrei”.

Per molti israeliani non religiosi, invece, il problema sono i rabbini. Quando fu creato loStato di Israele, i suoi fondatori, laici, concessero al rabbinato di gestire l’autorità su questioni come matrimonio, divorzio e sepoltura. E ancora oggi, così funziona. Una futura sposa deve dunque mostrare le proprie “credenziali” ebraiche, con documenti e testimoni. «Ma sempre di più le persone si infastidiscono a dover provare qualcosa che sanno essere vero – continua il magazine britannico -. Un quadro, questo, che è reso ancora più complicato dalle sempre più frequenti immigrazioni, che hanno portato questo sistema a essere … addirittura insostenibile». Ad esempio, gli ebrei etiopi, immigrati in Israele fra gli anni ’80 e ’90, rischiando la propria vita, hanno dovuto affrontare un persistente scetticismo nei confronti del loro ebraismo. «Io sento di essere l’ebreo che voglio essere – protesta il gruppo Fentahun Assefa-Dawit di Tebeka, che rappresenta gli oltre 130.000 etiopi d’Israele -. Non voglio che nessuno mi dica come essere ebreo».
Ma spesso si dubita anche sull’identità ebraica degli immigrati occidentali: il rabbinato, infatti, considera alcuni rabbini americani troppo indulgenti nel farsi garanti per i propri seguaci e rifiuta la loro testimonianza. Dal canto loro, gli israeliani sono sempre più preoccupati dell’impatto che un tale atteggiamento può avere sul sostegno politico ed economico dato oggi dalla diaspora ad Israele.

Una bomba a orologeria

Il problema più grande, secondo l’Economist, nasce dalle conseguenze di due grandi rotture avvenute nel XX secolo: la Shoah e il collasso dell’Unione Sovietica. Come è noto, per la legge del ritorno, chiunque ha – o il cui coniuge ha – almeno un nonno ebreo può chiedere la cittadinanza: un criterio, questo, che era stato stabilito dalle leggi di Norimberga del 1935. Inoltre, da questa norma vengono riconosciute anche le conversioni che il rabbinato rifiuta.

Questo ha portato a una situazione paradossale: ci sono infatti molti ex sovietici che sono stati considerati abbastanza ebrei per entrare in Israele, ma che non lo sono abbastanza per i rabbini. E dato che Israele non dà la possibilità di sposarsi civilmente, questi israeliani sempre di più si recano all’estero. La conseguenza di tutto ciò è che la popolazione si sta dividendo in tre grandi gruppi: gli ebrei halachici, gli arabi e gli “altri”. Una divisione questa, che il giurista israeliano Yedidia Stern ha definito una “bomba a orologeria”.

Già all’interno della Knesset ci sono non pochi politici, come Ruth Calderon (Yesh Atid) che invoca un nuovo rapporto fra sinagoga e stato, richiedendo innanzitutto la possibilità di sposarsi solo civilmente, e che si oppone al fatto che la supervisione sulle materie civili spetti al rabbinato.

Anche nella diaspora ebraica, però, esiste la questione di chi sia da considerarsi ebreo. Senza contare che, per paura di attentati e terrorismo, molti ebrei non frequentano più la Comunità ed evitano di portarvi i figli per non esporli a pericoli. In alcuni paesi, si è perfino tentato di dissuadere dalla pratica della circoncisione. Molti ebrei hanno dimenticato così gran parte del loro patrimonio, pur continuando a considerarsi ebrei. Una ricerca del Pew Research Centre rivela che in America l’ebraismo non è per lo più vissuto come fede e che il fenomeno dei matrimoni misti è ormai profondamente radicato: esclusi gli ortodossi (10% della popolazione ebraica americana), il 72% dei matrimoni dal 2000 ad oggi sono appunto misti. Una situazione difficile, che potrebbe mettere a rischio, dicono alcuni, la stessa sopravvivenza dell’ebraismo futuro.

E questo accade anche in Francia, Australia, Canada e Gran Bretagna, dove vivono le popolazioni ebraiche più importanti dopo Israele e gli Usa. Nel Regno Unito, in particolare, il mood tranquillo che fino a oggi ha caratterizzato la comunità ebraica sta cambiando: «Storicamente, la comunità britannica è sempre stata più piccola e silenziosa di quella americana – continua The Economist -. Ma oggi il mood sta cambiando, e il nuovo centro ebraico JW3 nel nord di Londra lo dimostra chiaramente. Il suo scopo, infatti, è che i visitatori del centro possano sentirsi ebrei come vogliono, indipendentemente dalla loro storia».

Due futuri, due domande
Per quanto contrapposti possano sembrare gli innovatori e i conservatori, entrambi condividono uno scopo: assicurare la continuità ebraica. Ma le differenti attitudini delle due parti implicano due diversi scenari, spiega il settimanale. In uno gli ortodossi, con l’alto tasso di nascite, costituiranno una fetta sempre più importante della popolazione ebraica (in Gran Bretagna il 40% delle nascite fra ebrei avviene in famiglie haredì). E via via, gli haredì si staccheranno dagli ebrei poco osservanti, con il risultato che questi ultimi si allontaneranno dalla Comunità, portando il numero totale di ebrei a calare. Infine, i legami fra Israele e la diaspora potrebbero indebolirsi. L’altro possibile scenario invece, porterebbe a una maggio tolleranza e pluralismo degli ebrei tra loro. Quindi – conclude The Economist – dopo essersi chiesti “chi è un ebreo?”, ci si potrebbe interrogare su “quanti ebrei ci saranno nel futuro?”. Ma anche su “che cosa è un ebreo?”. Per alcuni, gli ebrei sono coloro che aderiscono a una fede antica, con una particolare qualificazione biologica. Mentre per altri, gli ebrei sono membri di una civiltà  dispersa caratterizzata da una tradizione etica e una predisposizione mentale agli interrogativi; oppure da un retaggio di persecuzioni e visione tragica del mondo (ma anche da un opposto senso dello humour); oppure da alcuni gusti in cucina e dalla cultura. Per Yossie Beilin, ex ministro israeliano dell’economia e della giustizia (nella foto a destra), gli ebrei sono una famiglia estesa, che vorrebbe che i suoi membri le appartenessero non per sangue o fede, ma per il desiderio di appartenerle.

«E’ uno scherzo triste che dopo la Shoah noi si dica alle persone che si sentono ebree, che non lo sono». Questa famiglia dovrebbe secondo lui offrire cerimonie civili laiche – «non voglio mica disturbare D-o, è già così impegnato». E se perfino molti ebrei non sono credenti, perché ci si deve convertire? Beilin è certamente ancora un outsider. Ma forse non per molto.