Donna, ebrea e resistente: vita e battaglie di Zivia Lubetkin, fra i leader della rivolta del ghetto di Varsavia

Personaggi e Storie

di Ilaria Ester Ramazzotti
“Zivia era uno dei trenta posizionati ai piani più alti di un edificio all’incrocio tra le vie Nalewki e Gęsia, la prima unità che si sarebbe scontrata con i tedeschi. Erano quasi sopraffatti dall’ansia e dall’eccitazione. Pur non essendo un esercito, erano […] appostati a centinaia in luoghi strategici e armati di pistole, fucili, mitragliatrici, granate, bombe e migliaia di bottiglie molotov o, come finirono per chiamarle i tedeschi, «l’arma segreta degli ebrei». Molte donne stringevano bombe ed esplosivi. Ciascun combattente aveva il proprio equipaggiamento personale (preparato dalle compagne) contenente un cambio di biancheria, cibo, una benda e un’arma.

Quando sorse il sole, Zivia vide le forze tedesche che avanzavano verso il ghetto come se fosse un vero fronte di battaglia. Duemila nazisti, panzer, mitragliatrici. I soldati tirati a lucido marciavano a cuor leggero, cantando, pronti per un facile colpo finale. I combattenti della ŻOB attesero che i tedeschi varcassero i cancelli del ghetto. Poi premettero il detonatore. Uno scoppio fragoroso. Le mine che avevano piazzato sotto la via principale esplosero”.

Con queste righe la storica e scrittrice Judy Batalion, nel suo volume ‘Figlie della resistenza: la storia dimenticata delle combattenti nei ghetti nazisti, parla delle prime ore della rivolta del ghetto di Varsavia del 19 aprile 1943, viste dalla prospettiva della partigiana Zivia Lubetkin (Byteń, Polonia, 9 novembre 1914 – Lohamei HaGeta’ot, Israele, 14 luglio 1978).

Zivia era una giovane antifascista nel gruppo di comando della ŻOB, Żydowska Organizacja Bojowa, in yiddish Yiddishe Kampf Organizatzie, l’organizzazione combattente ebraica nata in Polonia nel 1942 che nella sollevazione del ghetto della capitale svolse un ruolo centrale insieme all’unione combattente ebraica ZVV, Żydowski Związek Walki, in yiddish Yiddishe Militerishe Foreynikung. La ŻOB era stata fondata da rappresentanti delle tre organizzazioni giovanili Hashomer Hatzair, Bnei Akiva e Dror, della quale Zivia Lubetkin faceva parte. Fin da ragazza, si era unita ai movimenti sionisti giovanili, anche con ruoli di leadership, partecipando a programmi di hachshara per la preparazione all’aliyah. Nel 1939 fu delegata al ventunesimo Congresso sionista a Ginevra, e quando la Germania invase la Polonia venne mandata a Leopoli, città sotto il controllo sovietico, per organizzare attività clandestine di resistenza con altri dirigenti del Dror.

Zivia Lubetkin era nata a Byteń vicino a Słonim, attualmente in Bielorussia, figlia di Ya’akov-Yizhak Lubetkin (1880-1942), commerciante con una piccola attività di vendita di alimentari, e di Hayyah Zilberman (1882-1942). Aveva cinque sorelle e un fratello. A Varsavia era arrivata nel 1940, nelle fasi di costituzione del ghetto, per occuparsi dell’organizzazione delle comunicazioni con l’esterno e per negoziare l’erogazione di fondi per il movimento Dror con l’American Jewish Joint Distribution Committee e lo Judenrat. Fu in quel periodo che conobbe e collaborò con il compagno Jitzhak Zuckerman (nella foto con Zivia), che sarebbe diventato vicecomandante della ZOB e in seguito suo marito. Quando nel 1941 giunsero a Varsavia notizie sulle deportazioni dal ghetto di Vilnius, Zivia iniziò a dedicarsi alla difesa attiva con gli altri partigiani, con cui nel luglio del 1942 contribuì a fondare la ZOB, in risposta alle deportazioni dal ghetto di Varsavia verso il campo di sterminio di Treblinka. Zivia faceva parte del comando centrale, unica donna a parte la dirigente dell’Hashomer Hatzair Miriam Heinsdorf. In vari modi il movimento iniziò a procurarsi delle armi e in ottobre ne ottenne, seppur in numero limitato, dalla resistenza polacca Armia Krajowa.

Video su Zivia Lubetkin del World Jewish Congress

La lotta armata di Zivia iniziò nei giorni delle prime azioni del gennaio del ‘43, quando alcuni combattenti muniti di pistola si infilarono nelle righe di alcuni abitanti del ghetto pronti per essere deportati e combatterono contro i nazisti, permettendo a molti ebrei di fuggire. Poi, per tre giorni, le SS sospesero le deportazioni. “Il 18 gennaio 1943 nel caseggiato di via Zamenhof 56-58 nel ghetto di Varsavia il silenzio era assoluto – scrive ancora nel suo libro Judy Batalion -, solo qualche grido lacerante proveniva dalle persone trascinate all’Umschlagplatz (il piazzale delle deportazioni ndr). Zivia (Celina fu il nome di battaglia) e gli altri partigiani, tutti tra i venti e venticinque anni, a eccezione di Celina, che ne aveva ventinove, erano acquattati negli armadi, nascosti dietro le porte e in ogni angolo della casa. Il silenzio fu rotto dal rumore degli stivali dei tedeschi che salivano le scale del caseggiato. Quando irruppero nella stanza dove Zivia e i compagni sedevano intorno al tavolo come se fossero poveri ebrei in attesa dell’esecuzione, tutti uscirono dai nascondigli; i tedeschi furono massacrati con ogni tipo di arma e i sopravvissuti batterono in ritirata”.

Dopo i fatti del gennaio del ‘43, i resistenti misero in piedi bunker, rifugi sotterranei e dei passaggi per preparare una più grande opposizione, prevedendo una prossima “liquidazione” del ghetto. Molti degli abitanti crearono degli spazi dove restare nascosti per sottrarsi alla deportazione. Come i suoi compagni, Zivia era consapevole della forza del nemico, ma aveva scelto la resistenza, anche solo per morire resistendo. Quando, attraverso una linea telefonica organizzata dai partigiani che li metteva in contatto con la “parte ariana della città”, i compagni ricevettero la notizia che il ghetto era circondato e che i nazisti sarebbero entrati all’alba, lei era certa che i combattenti del ghetto non sarebbero sopravvissuti alla rivolta, ma continuò a scegliere l’insurrezione. Con le armi in pugno, sapeva che quel 19 aprile, «quella mattina, segnava l’inizio della fine». Lo avrebbe scritto negli anni a venire nel suo libro di memorieIn the Days of Destruction and Revolt’, pubblicato a Tel Aviv nel 1979. Da giovane combattente ebrea a costante rischio della propria vita, fra i suoi obiettivi c’era stata anche la ricerca di modi e persone che avrebbero poi raccontato e testimoniato come il ghetto di Varsavia aveva opposto resistenza.

Inizia la rivolta del ghetto

Quella mattina di primavera, vigilia di Pesach, nel corso della loro irruzione i tedeschi trovarono il ghetto deserto e vennero colti di sorpresa dai combattenti della ZOB, uomini e donne come Zivia, guidati dal loro comandante Mordecai Anielewicz, che lanciarono bombe e le bottiglie molotov che avevano assemblato a mano. “Il comandante generale tedesco delle SS, Jürgen Stroop, riferì la perdita di dodici uomini, uccisi o feriti durante il primo assalto al ghetto – scrive l’Enciclopedia dell’Olocausto dello United States Holocaust Memorial Museum -. Il terzo giorno di rivolta, le SS e le forze di polizia di Stroop cominciarono a radere al suolo il ghetto, edificio per edificio, per costringere il resto degli ebrei a uscire. I combattenti della resistenza ebraica risposero con assalti sporadici dai loro bunker, ma i tedeschi rasero al suolo il ghetto in modo sistematico. Le forze tedesche uccisero Anielewicz e gli altri combattenti durante l’attacco al bunker di comando della ZOB, situato al numero 18 di via Mila, che occuparono definitivamente l’8 maggio”.

Il francobollo delle Poste israeliane dedicato a Zivia e Yitzhak

 

Anche Zivia avrebbe potuto trovarsi con i suoi compagni in quel quartier generale individuato e distrutto dai nazisti. Ma quando le giunse la notizia dell’accaduto, “non c’era tempo per la pazzia, non c’era tempo per piangere gli amici più cari – leggiamo ancora in ‘Figlie della resistenza’-.  Quanto rimaneva della ŻOB doveva curare i feriti, trovare un riparo e decidere cosa fare […]. Zivia annunciò che l’indirizzo del quartier generale era cambiato. Era sempre indaffarata, sempre in movimento, senza mai cadere nella passività che avrebbe significato cedere alla disperazione”. “Nascosta nel ghetto in fiamme, la sua stessa vita appesa a un filo ingarbugliato, era già rosa dal senso di colpa del sopravvissuto. Ma, ancora una volta, non ebbe tempo per tormentarsi”. «Essere responsabile degli altri ti rimette in piedi, nonostante tutto», avrebbe poi svelato sempre nel suo libro ‘In the Days of Destruction and Revolt’.

I combattenti del ghetto resistettero per giorni, singoli e gruppi continuarono a nascondersi o a combattere contro i tedeschi per quasi un mese. Fu la prima e maggiore opposizione ebraica nell’Europa occupata dai nazisti.

Poi, il 16 maggio, Stroop comunicò a Berlino che il quartiere ebraico di Varsavia non esisteva più. Fu fatta saltare anche la sinagoga grande di Varsavia, al di fuori delle mura del ghetto. L’intera operazione militare nazista, che avrebbe dovuto svolgersi in soli tre giorni, durò quattro settimane. Le perdite dichiarate dai nazisti furono di 17 morti e 93 feriti, (dei quali 16 morti e 85 feriti in azione), mentre la stampa clandestina polacca parlò di circa mille vittime tedesche. Circa ottanta combattenti, incluso Marek Edelman, nuovo comandante dopo la morte di Anielewicz, riuscirono a lasciare la zona passando attraverso i tunnel delle fognature, e una trentina di loro sopravvisse alla guerra.

La salvezza

Anche Zivia era fuoriuscita dal ghetto in distruzione tramite le canalizzazioni fognarie, il 10 maggio, con un gruppo di altri combattenti, in buona parte stremati, riuscendo a passare nella “parte ariana della città”. Nell’agosto del 1944 prese parte insieme ad altri partigiani della ŻOB, nelle file dell’Armia Ludowa, alla rivolta di Varsavia contro l’occupazione tedesca. Quando la capitale polacca fu liberata dalle truppe sovietiche nel gennaio del 1945, era uno dei 34 combattenti sopravvissuti alla rivolta del ghetto e alla Seconda guerra mondiale. Entrambi i suoi genitori e quattro delle sue sorelle erano morti nella Shoah. Un’altra sorella e il fratello erano emigrati nella Palestina mandataria.

Le sue battaglie e il suo impegno non finirono al terminare della guerra. Collaborò con i movimenti sionisti e l’organizzazione Berihah per trasferire i sopravvissuti alla Shoah dell’Europa orientale verso l’Europa occidentale, per la loro successiva emigrazione in Eretz Israel. Lei stessa tentò di trasferirvisi passando con altri ex combattenti dalla Romania, ma il tentativo fallì.

Zivia Lutkin al processo ad Adolf Eichmann

 

Ci riuscì nel 1946, anno in cui partecipò al ventiduesimo congresso sionista a Basilea come delegata. Nel 1947 sposò Jitzhak Zuckerman, da cui ebbe presto due figli, Shimon (1947) e Yael (1949). Nella Galilea occidentale a nord di Haifa, con suo marito e altri reduci del ghetto di Varsavia, fondò il kibbutz Lohamei HaGeta’ot (Combattenti del ghetto), che comprendeva il museo e centro di documentazione sulla Shoah e la resistenza Itzhak Katzenelson.

Nel 1961, lei e il marito vennero chiamati a testimoniare al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme. Zivia Lubetkin Zuckerman morì nell’estate del 1978 nel kibbutz, dopo una lunga malattia. L’anno successivo venne pubblicato in Israele il suo libro a testimonianza di quegli indelebili giorni drammatici di distruzione e dell’intrinseco valore individuale e di gruppo della rivolta.

 

Video dello Yad Vashem con le testimonianze di Zivia Lubetkin (al processo contro Adolf Eichmann) e di altri combattenti nella rivolta del ghetto di Varsavia