di Fiona Diwan
«Dopo la perdita di mio figlio Uri durante la seconda guerra del Libano, nel 2006, ricordo come fosse facile per me cedere al dolore, alla rabbia, al vittimismo. Tutto ciò è naturale, direte, certamente aiuta, ma solo per un po’. Per me, l’unico antidoto allo stato di vittima, per tornare a vivere, è agire». Così parla David Grossman, rivolto al pubblico, durante il festival di Letteratura di Mishkenot Sha’ananim svoltosi lo scorso maggio a Gerusalemme. E difatti Grossman ha agito. E oggi manda alle stampe Caduto fuori dal tempo (Mondadori), la sua ultima fatica letteraria, un libro diverso da quelli a cui siamo solitamente abituati. Poesia-racconto, a tratti prosa poetica: per andare dentro il proprio dolore di padre, per dialogare con la memoria del figlio. “Lui è morto, ma la sua morte non è morta; ed è proprio lì che volevo essere: dove la sua morte continua a fremere; dove forse c’è l’illusione di un risveglio ma più di tutto c’è la sensazione di non essere in fuga”, scrive David Grossman, facendo parlare una delle protagoniste del nuovo libro.
Grossman è scrittore restio alle interviste e infatti questo articolo non lo è. Quando vuole dire qualcosa lo scrive sulle colonne di Ha’aretz e tutti i quotidiani del mondo lo traducono. Ma questo articolo che leggete è il frutto di diversi incontri, a volte informali a volte mondani, altre volte pubblici, avvenuti negli anni (di cui gli ultimi due al Teatro Franco Parenti a marzo, e a Gerusalemme, al Festival di Letteratura). A ottobre, Grossman sarà a Milano per presentare il suo libro e tornerà, a novembre, per ricevere il premio Science for peace, -oggi alla sua quarta edizione-, da parte della Fondazione Veronesi e dell’Università Bocconi. Un premio, questo, conferito allo scrittore non solo per le sue note posizioni pacifiste e per la sua capacità di guardare al conflitto con i palestinesi “con gli occhi del nemico”, ma anche per le sue ultime dichiarazioni pubbliche violentemente contrarie a qualsiasi intervento israeliano in Iran, e contro l’eventualità di uno strike o bombardamento alle centrali nucleari persiane. Ma al di là dell’avversione per la politica di Bibi Netanyahu -definito da Grossman megalomaniacale-, lo scrittore israeliano se la prende col silenzio di molti politici, ministri, quadri dell’esercito, contrari alla guerra contro l’Iran in privato ma restii a pronunciarsi in pubblico. Israele è davanti alla scelta più drammatica della sua storia, dal 1948, da quando è nato: perché nessuno scende in piazza a frotte? Che cosa diremo ai nostri figli quando ci chiederanno conto di un disastro?, si chiede Grossman in un articolo comparso su Ha’aretz il 3 agosto scorso. Difficile non cogliere, in queste frasi, l’eco sofferta della tragedia personale che lo scrittore ha voluto raccontare nel suo ultimo libro.
Ma torniamo a Gerusalemme e all’incontro. Le parole fluiscono con mite titubanza. Grossman racconta la genesi di Caduto fuori dal tempo e soprattutto mette a nudo un piccolo pezzo della propria anima. Lo fa con una malinconia che riesce a stare, non si capisce come, a un passo dalla tristezza. Grossman sa essere sorridente e straziante allo stesso tempo. E questo, da sempre: che sia quando parla della sua passione per lo scrittore Bruno Schulz, -ucciso stupidamente, per ripicca da un nazista- o che racconti del vento giallo della guerra o ancora dell’amore che diventa un coltello che scava nell’anima e fin dentro il corpo dell’amato.
«Dopo la scomparsa di Uri, ho capito che dovevo ricollocare me stesso, perché intorno a me tutto era follia. E ho saputo fin dall’inizio che dovevo agire tramite la scrittura, l’unico modo che conosco per essere in contatto con le cose. Ho sempre scritto di cose che per me erano potenzialmente distruttive, che mi spaventavano e qui mi trovavo davanti alla più dura. Ho scritto per due anni, senza avere idea di quale sarebbe stato il risultato. Ho dovuto compiere un testardo sforzo di volontà, affrontare la ripulsa di trovarmi nello studio. C’era, nell’atto stesso di entrarci, qualcosa che somigliava al prendere un chiodo e infilarlo in una presa elettrica. Il mio studio ha rappresentato anche l’altro luogo del libro», spiega Grossman.
«Era il luogo in cui la vita toccava la morte nel modo più diretto. Eppure, nel momento in cui mi trovavo lì, era il posto in cui volevo trovarmi. Non perché sia masochista, ma perché sentivo che il mio studio era il posto giusto per me, il posto in cui attualmente la mia vita si trova. Ricordo di aver pensato che, visto che ero stato spedito in quella terra desolata, quanto meno la volevo mappare il più possibile, e farlo con parole mie. Sentivo che se scrivevo significava che ero lì, per quanto possibile. Ogni volta che riuscivo a toccare quel nucleo, nasceva un’altra poesia, un altro dialogo».
Raccontando la genesi di Caduto fuori dal tempo, Grossman dice chiaramente come questo sia stato la reazione a un evento di morte, al senso di immobilità assoluta che ti procura la morte quando ti colpisce. «Dovevo trovare il modo di muovermi. Dovevo cercare un palpito, anche per me stesso, perché una situazione del genere è in grado di uccidere non solo chi muore o è già morto, ma anche chi gli sta intorno, o alcune parti di chi gli sta intorno. Non potevo accettare che anche l’uomo-scrittore dentro di me fosse stato abbattuto».
Quello di David Grossman è quasi un flusso di coscienza. Sta parlando di fronte a un pubblico, ma è quasi come se fosse solo. Non vola una mosca tra la platea che a Gerusalemme lo ascolta. «Scrivere questo libro è stato una forma di protesta, di ribellione interiore. In una situazione di questo tipo, un uomo non ha molta libertà e quel poco che ha si realizza nella possibilità di descrivere la disgrazia con parole sue. Dal momento che nelle mie parole c’è sempre movimento, ho sentito che quando riuscivo a creare movimento in quell’assenza, in un certo senso smettevo di essere la vittima che ero stata finché non avevo cominciato a scrivere. La scrittura mi dà l’impulso per tornare a vivere questa vita, vita che in un certo senso mi è stata quasi portata via».
Grossman tende a precisare che «tutti i miei libri sono stati scritti in risposta a una sensazione di soffocamento e claustrofobia. Ma in questo libro c’è dell’altro, qualcosa che ha a che fare con l’origine della creazione in generale. È il luogo in cui la vita e la morte si toccano senza separazioni. Il luogo in cui noi sfuggiamo alla minaccia della morte, perché essere un uomo vivo significa avere coscienza della morte».
Mi vengono in mente le parole che spesso Grossman usa quando parla del proprio processo creativo, paragonandolo al parto, ovvero al momento in cui, nella vita di una donna, l’esperienza della vita e della morte quasi si abbracciano. «Io resto “incinto” di una storia… la sento arrivare e allora mi metto a camminare. Se è primavera esco all’aperto e cammino sempre più in fretta, per giorni. E se è inverno, giro per una stanza di casa, faccio chilometri, quasi scavando solchi nel tappeto, come un prigioniero».
Quando qualcuno gli chiede, dal pubblico, perché abbia scelto di scrivere in versi e in poesia invece che in prosa, risponde: «Non sapevo di essere un poeta, e continuo a non pensarlo. Mia moglie, Michal, ha commentato che la poesia è quanto di più simile al silenzio ci sia, e forse è proprio il silenzio che avrebbe dovuto esserci. Ero immerso in un conflitto permanente: come faccio a scrivere? Bisognerebbe tacere, ma io non riesco a tacere, scoppierei. Posso solo dire che intendevo scrivere prosa e ho scritto poesia; come se una forza mi avesse assalito e piegato il polso, costringendomi a passare alla riga seguente».
«Che cosa ho provato una volta finito il libro? Ho capito di dover trovare un’altra strada per stare nella mia nuova vita, stare in contatto con quanto è accaduto, non dimenticare, non indietreggiare da questo posto. Ho pensato che anche in una situazione così infelice mi sento comunque fortunato perché posso scrivere, perché ho ricevuto la possibilità di esprimerla in parole. Oggi, sfogliando il dizionario Even Shushan, ho casualmente scoperto che alle parole sof (fine) e sofiut (definitivo) segue la parola sofer (scrittore). E ho pensato a quel che scrive la poetessa polacca Wislava Szymborska: di certo non possiamo vivere in eterno, però possiamo scrivere qualcosa che forse – inspiegabilmente – riuscirà a sgusciare oltre la nostra fugacità, oltre il tempo.
In un certo senso questo è il meno israeliano fra i miei libri. Eppure, una sfumatura molto israeliana esiste, ed è rappresentata dalla mia volontà di parlare della piccola morte privata, non di quella grande generale. I morti privati passano in fretta all’ambito della morte collettiva, tanto più se sono caduti in guerra; in questo caso vengono immediatamente nazionalizzati. Per me è stato importante compiere il processo inverso; esigere l’individuo privato, intimo, liberarlo dalla cassa di risonanza nazionale».