Albert Einstein

Einstein: i 100 anni del Nobel e gli anni felici bernesi

Personaggi e Storie

di Piergiorgio Pescali
Il 9 novembre 1922, il Comitato per il premio Nobel per la fisica decise di assegnare, con un anno di ritardo, il premio per il 1921 ad Albert Einstein “per i suoi servizi alla fisica teorica, in particolare per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico.”

L’effetto era già noto da tempo, ma Einstein, nel suo lavoro intitolato Un punto di vista euristico sulla produzione e trasformazione della luce riuscì a spiegarlo correttamente ipotizzando che la luce fosse formata da piccole particelle, i fotoni, che, trasportando una certa quantità di energia potevano eccitare gli elettroni di un atomo. Se l’energia trasmessa dai fotoni fosse stata sufficientemente alta, gli elettroni avrebbero potuto liberarsi dal legame che li teneva uniti al loro nucleo.

Grazie al suo articolo, scritto a Berna il 17 marzo 1905 e pubblicato dagli Annalen der Physik il successivo 9 giugno, venne dimostrato che la luce, o meglio i fotoni, potevano comportarsi sia come onde che come particelle.

I documenti del Premio Nobel ad Albert Einstein (Einstein Museum a Berna, foto di ©Piergiorgio Pescali)

 

Il premio assegnato al fisico tedesco venne conferito con un anno di ritardo perché nel 1921 la Reale Accademia delle scienze svedese non aveva ritenuto alcun candidato meritevole del premio, riservandosi il diritto di rivedere la propria posizione in seguito. Fu Allvar Gullstrand, uno dei cinque membri che doveva valutare le candidature, a nutrire particolare ostilità nei confronti della teoria della relatività Einstein, ancora di difficile comprensione. Naturalmente gli accademici svedesi erano imbarazzati per non aver ancora concesso il massimo onore ad uno scienziato così popolare che dal 1910 al 1922 era stato nominato annualmente come candidato (ad eccezione del 1911 e del 1915) senza mai ottenere il premio. Fu un altro membro della Reale Accademia delle scienze, Carl Wilhelm Oseen, a trovare la soluzione: dato che non si riusciva a laureare Einstein per la sua teoria della relatività, lo propose per il suo articolo scritto sempre in quell’annus mirabilis 1905, sull’effetto fotoelettrico.

Einstein apprese la notizia del conferimento del premio il 13 novembre 1922 mentre stava per imbarcarsi a Shanghai diretto verso il Giappone. Con lui c’era la seconda moglie Elsa Löwental, che era anche sua cugina di primo grado.

Gli anni felici passati con Mileva Marić, la prima moglie da cui aveva divorziato nel 1919, erano ormai dimenticati e mentre Einstein trovava nuovo slancio nella sua vita privata e scientifica, l’ex coniuge arrancava a Zurigo con i loro due figli Hans Albert ed Eduard, a cui in seguito venne diagnosticata una forma di schizofrenia.

Il centenario del Nobel ad Albert Einstein è l’occasione per ripercorrere i passi compiuti a Berna dall’allora felice coppia Einsten-Marić che lo stesso Albert aveva soprannominato, prendendo spunto dal proprio cognome, “Una pietra” (da ein, una e stein, pietra).

I due si erano conosciuti, lei ventenne lui diciassettenne, nel 1896 all’Istituto Politecnico svizzero di Zurigo (oggi Istituto federale svizzero di tecnologia, ETH). La Svizzera era uno dei pochi Paesi in Europa dove alle donne era permesso studiare materie scientifiche, ma l’amore sbocciato con Albert non le permise di conseguire il diploma: nel 1902 Mileva rimase incinta e nello stesso anno, a Novi Sad, la città in cui abitava la famiglia e dove si era recata per partorire, nacque una bambina a cui venne dato il nome di Lieserl. Poco dopo della figlia si persero le tracce: c’è chi dice che morì, chi invece afferma fosse stata data in adozione; da parte loro, i coniugi Einstein non ne fecero più cenno pubblicamente (l’ipotetica lettera alla figlia scritta da Einstein e che circola su Internet è un falso).

Nel 1902 Albert, che non aveva potuto seguire la fidanzata in Serbia, si trasferì a Berna occupando un posto nell’Ufficio federale della proprietà intellettuale. Il novello fisico rimase immediatamente estasiato dalla città, tanto da scrivere a Mileva: “Berna è deliziosa, è una di quelle città in cui vivere è confortevole e dove si può vivere bene come a Zurigo.”

Einstein vi restò per i successivi sette anni traslocando sette volte, ma in questa piccola cittadina sembrava avesse trovato il suo equilibrio vitale e, dopo aver acquisito una stabilità economica, chiese alla sua amata di tornare in Svizzera e di sposarlo. Lei acconsentì e nel 1903 divenne la signora Einstein.

La casa a Berna di Albert Einstein e Mileva Marić (foto di @Piergiorgio Pescali)

Passarono i successivi due anni, forse i più tranquilli e felici della loro vita, in un bell’appartamento in via Kramgasse 49, dalle cui finestre era possibile osservare lo Zytglogge, il famoso orologio medioevale che si dice abbia ispirato ad Einstein l’idea della relatività del tempo. Albert lavorava sei giorni alla settimana all’ufficio brevetti, dalle 7 alle 18 anticipando l’uscita alle 17 solo al sabato. Tornava a casa e si rimetteva al lavoro sulla piccola scrivania cercando di completare le sue teorie (la leggenda che Einstein lavorasse alle proprie idee durante gli orari d’ufficio e di nascoso dal suo superiore sembra sia infondata).

Gli Einstein sembravano veramente “una pietra”: affiatati e innamorati incontravano amici, discutevano di fisica. Nel 1904 ebbero un altro figlio, Hans Albert e le aspirazioni di Mileva di poter conseguire il diploma e intraprendere la carriera di scienziata si dileguarono definitivamente.

Nell’appartamento di Kramgasse 49, mentre il marito continuava le sue ricerche, Mileva puliva, riassettava, cucinava, accudiva il piccolo Hans.

Poi arrivò il famoso 1905, l’annus mirabilis. In pochi mesi, dal 18 marzo al 27 settembre, Albert Einstein collezionò una serie di straordinari successi pubblicando i suoi articoli sulla più prestigiosa rivista scientifica di allora, gli Annalen der Physics.

Iniziato con l’articolo sull’effetto fotoelettrico che gli valse il Nobel, l’annus mirabilis terminò il 27 settembre 1905 con la pubblicazione de L’inerzia di un corpo dipende dal contenuto di energia? in cui compare la famosa relazione tra energia e massa collegandola ad un suo precedente articolo pubblicato nel giugno 1905 sulla relatività ristretta.

Le Einsteinhaus, il muso Einstein a Berna (foto di @Piergiorgio Pescali)

 

Nel 2005 la casa in cui gli Einstein abitarono, venne trasformata in museo, la Einsteinhaus, mentre il Museo storico di Berna dedicò un’intera sezione alla coppia.

La paternità degli articoli che resero famoso Einstein non fu mai messa in discussione fino a quando, nel 1969, Desanka Trbuhović-Gjurić scrisse una biografia di Mileva Marić in cui asseriva che il contributo della moglie serba nelle teorie di Einstein fosse stato decisivo.

Nonostante non siano mai trovate prove definitive sulla tesi, da quel volume nacque una fiorente letteratura fino a sfociare anche in serie televisive che rivalutavano la collaborazione scientifica di Mileva alle scoperte del marito.

Oggi gli studiosi sono pressoché unanimi nell’asserire che la Marić non destreggiasse sufficientemente la matematica per poter assumere un ruolo decisivo nel lavoro di Einstein. Del resto nell’abbondante carteggio di Einstein, in cui compaiono le lettere anche della moglie, non vi sono indicazioni di un coinvolgimento diretto di Mileva.

I rapporti tra i coniugi erano ancora ottimi quando gli Annalen pubblicarono i lavori del fisico tedesco, quindi perché, si chiedono in molti tra storici e scienziati, negli scritti originali della relatività ristretta, Albert Einstein avrebbe ringraziato l’amico Michele Besso per “essere rimasto accanto nel mio lavoro sul problema qui discusso e di cui gli sono debitore per i numerosi e valenti suggerimenti” senza citare la moglie?

Forse quindi, accanto al supporto dato dalla moglie, la grande ingegnosità della mente di Einstein potrebbe essere stata stimolata dalla ricchezza culturale di Berna e dalla atmosfera di tranquilla operosità che la cittadina rispecchiava.

Le passeggiate che sicuramente lo scienziato avrà fatto sulle colline circostanti e nel Rose Garden, dove ancora oggi c’è una panchina con una sua statua, potrebbero aver stimolato la sua visione; le caffetterie che si aprono sull’arteria principale sono state teatro di discorsi con gli amici scienziati. Probabilmente fu in uno di questi locali che Michele Besso introdusse all’amico i lavori di Ernst Mach, decisivi per la futura visione fuori dagli schemi della fisica che accompagnò Albert.

Gli “Anni felici passati a Berna”, come Einstein riferì in seguito quello sprazzo di vita passata nella capitale svizzera, rimarranno sempre impressi nei ricordi dello scienziato.

La città vecchia di Berna vista dal Rosengarten (foto di @Piergiorgio Pescali)

 

Ma a Berna si consolidò anche lo stretto sodalizio con il matematico Conrad Habicht e il filosofo Maurice Solovine. I tre, a cui talvolta si aggiungeva anche Besso, si riunivano spesso prima nell’appartamento di Gerechtigkeitsgasse al 32 e poi in Kramgasse 49 per discutere non solo di fisica, ma anche di religione, politica, filosofia. Mileva, a quanto scrisse Solovine, si limitava ad osservare: portava in tavola gli stuzzichini (in genere salsicce, formaggio, frutta), serviva il caffè, il tè senza partecipare alle discussioni. L’Akademie Olympia (Accademia Olimpia) come venne chiamato il gruppo dagli stessi partecipanti, giocò un ruolo essenziale nella formazione eclettica di Einstein. Nel salotto di casa, col sottofondo del rumore dello sferragliare dei tram scandito dai battiti dello Zytglogge, i tre discutevano i temi trattati da David Hume, John Stuart Mill, Henri Poincaré, Baruch Spinoza. Di tanto in tanto, Einstein dilettava gli amici suonando il suo violino. Albert venne anche investito del titolo di “Akademiepräsident” coll’ironico nome di Albert il cavaliere del coccige (Albert Ritter von Steißbein). Insomma, Berna fu davvero il palcoscenico dove si dipanarono gli anni più spensierati di Einstein.

Anche l’Università di Berna era una delle mete adocchiate dallo scienziato, ma il rapporto con l’ateneo fu più conflittuale che collaborativo.

Forse Einstein si risentì per il rifiuto ricevuto il 28 ottobre 1907 dalla facoltà dell’università bernese della sua domanda per l’abilitazione all’insegnamento in Fisica teorica. La ricusazione non fu motivata dal rigetto delle sue teorie, come è stato recentemente ipotizzato, ma da un cavillo burocratico: Einstein non aveva presentato la tesi di abilitazione. La espose qualche settimana più tardi perché il 27 febbraio 1908 la stessa università invitò il fisico ad una lezione di prova con alcuni studenti. La sua esposizione non sembra fosse stata apprezzata dagli studenti: molti trovarono i suoi concetti interessanti, ma spiegati in modo poco comprensibile e molti abbandonarono il corso prima della sua conclusione.

Alla fine, ad Einstein venne proposto una Privatdozent che gli permetteva di diventare un docente privato esterno e senza paga, che avrebbe potuto tenere lezioni nelle aule dell’università raccogliendo le tasse di iscrizione ai suoi corsi.

L’esperienza fu però un fallimento: “L’università è un letamaio. Non insegnerò lì, sarebbe una perdita di tempo” scrisse a Michele Besso.

Come molti suoi colleghi, Einstein non riusciva ad esprimere con concetti chiari e semplici le sue idee che risultavano astruse al corpo studentesco.

La gloriosa epopea bernese della famiglia Einstein terminò il 6 luglio 1909 quando, a seguito dell’accoglimento della sua domanda di insegnamento al Politecnico di Zurigo, rassegnò le sue dimissioni dall’Ufficio brevetti di Berna e, assieme a Mileva e a Hans Albert, si trasferì a Zurigo.

Qui, a differenza di Berna, il suo essere ebreo lo portò a subire maldicenze da parte dei suoi colleghi tanto da scrivere al suo amico Jacob Johann Laub di “essere ormai membro ufficiale della corporazione delle prostitute (il termine utilizzato era un po’ più spinto, ndr)” e descrisse la triade dei più eminenti professori del politecnico, Kleiner-Burkhard-Cantor come la “Gilda delle puttane (der Gilde der Huren).”

Davvero Berna era ormai lontana…