Elie Wiesel, il testimone

Personaggi e Storie

In occasione del suo recente viaggio a New York il sindaco di Roma Walter Veltroni ha avuto una serie di colloqui con autorevoli esponenti della Comunità ebraica americana per illustrare il progetto di costruzione del Museo romano della Shoah che l’amministrazione capitolina ha già deciso di costruire in un terreno adiacente Villa Torlonia in collaborazione con la Comunità Ebraica di Roma e l’associazione Figli della Shoah. Con il medesimo obiettivo Veltroni ha incontrato anche il professor Elie Wiesel, illustre ed autorevole testimone vivente dell’Olocausto, premio Nobel per la Pace nel 1986.

Nel corso del cordiale e affettuoso colloquio avvenuto nella sede della ”Elie Wiesel Foundation for Humanity” il sindaco ha chiesto a Wiesel la disponibilità ad impegnarsi nel progetto romano del Museo della Shoah. Il premio Nobel ha accolto con grande piacere l’invito del sindaco ed ha così accettato la presidenza onoraria della Fondazione del Museo della Shoah di Roma, l’istituzione che sarà creata a New York con lo scopo di raccogliere fondi per il progetto scientifico del Museo avendo già l’amministrazione trovato i fondi per la sua costruzione.

”La decisione di Elie Wiesel è per noi un grande onore – ha detto il sindaco Veltroni – e rappresenta la testimonianza più autorevole del grado di credibilità ed importanza raggiunta dalla città di Roma nel ruolo di capitale della pace e della memoria, punto di incontro e di dialogo che ripudia ogni forma di intolleranza e di violenza. Con la presenza di Wiesel, il nostro progetto acquista inoltre un ineguagliabile sigillo di garanzia che renderà il Museo della Shoah un luogo di memoria cui Roma potrà essere orgogliosa nel mondo”.

Elie Wiesel è stato chiamato alla presidenza del Museo della Shoah di Roma, un centro per lui fondamentale “dove si raccoglie tutta la memoria di ciò che è stato”. Il Museo come testimonianza, Elie Wiesel come testimone massimo dell’Olocausto la cui esperienza è il nucleo del suo romanzo più noto, Notte.

Autore di oltre 40 libri, romanzi e storia, saggi e drammi, ricevette numerosi premi letterari.Tuttavia il riconoscimento più prestigioso è stato il Premio Nobel per la Pace, conferitogli nel 1986, per le sue campagne incessanti contro la violenza, la repressione, il razzismo nel mondo. Per la sua difesa di molte cause, per Israele, per la situazione degli ebrei sovietici ed etiopi, per le vittime dell’apartheid nel Sudafrica, per i desaparecidos d’Argentina, per le vittime della pulizia etnica bosniache nella ex Jugoslavia, per quelle del Ruanda, per gli indiani del Nicaragua, per i curdi. L’ultimo suo appassionato intervento al Consiglio di sicurezza dell’Onu per richiamare l’attenzione del mondo sulla crisi umanitaria nel Darfur è solo di poche settimane fa, il 14 settembre.

Fra le motivazioni più significative per il conferimento del Nobel c’è sicuramente il ruolo svolto da Wiesel nell’insegnare ai sopravvissuti e ai loro figli come reagire con pace costruttiva e giustizia a una cospirazione mondiale di genocidio che si compone di omicidio di massa, silenzio di massa e indifferenza di massa. Il più alto riconoscimento gli è dovuto soprattutto da parte di quei rappresentanti del mondo che se ne stettero a guardare in silenzio.

Ma quale è il passaggio dalla testimonianza e memoria del passato ai problemi del presente, alle situazioni di ingiustizia, crudeltà, violenza, che infuriano nel mondo come se la più terribile tragedia che ha mai colpito l’umanità non avesse insegnato nulla e l’uomo non facesse nulla per prevenirli? In altre parole, in che modo la sua condizione di sopravvissuto e quindi di testimone si è potuta trasformare in missione di pace?

Elie (Eliezer) Wiesel nasce nel 1928 a Sighet, una cittadina ungherese in una zona oggi appartenente alla Romania, figlio di una famiglia religiosa da cui attinge cultura e spirito hassidico.

Nei suoi due libri di memorie – ma tutte le sue opere sono autobiografiche, anche i romanzi – racconta dell’educazione religiosa e laica ricevuta, fino a quando la vita della famiglia subì nel 1944 la più tragica delle interruzioni. Da Auschwitz sarebbero ritornati solo lui e le due sorelle maggiori: dalla madre e dalla sorellina fu separato appena il convoglio giunse al campo, mentre il padre se lo vide morire sotto agli occhi, di fame e di maltrattamenti.

Dopo la liberazione, in un Centro di Parigi insieme con altri orfani sopravvissuti, continua gli studi, e poi alla Sorbona, in seguito divenne giornalista e quindi corrispondente di giornali israeliani; si trasferì quindi negli Stati Uniti dove gli fu conferita la cittadinanza nel 1963. Intraprese la carriera universitaria presso vari atenei americani e di recente è diventato docente all’Università di Boston.

Solo dopo dieci anni di silenzio, anche per l’insistenza di Francois Mauriac di cui era diventato amico, riuscì a mettere sulla carta l’esperienza attraverso cui era passato: nel 1958 uscì l’edizione inglese di La Notte, e da allora Wiesel si è battuto perché lo sterminio di sei milioni di ebrei non venisse mai dimenticato e che altri esseri umani non diventassero vittime di altri genocidi. Egli in qualità di sopravvissuto assume il ruolo di messaggero, ‘messaggero dei morti fra i vivi’ perché con l’oblio non si aggiungano altre vittime alle vittime.

Ma vi è un’altra ragione che lo spinge a riandare sulla tragica esperienza non solo come testimone: il bisogno di combattere sotto l’aspetto teologico con l’Olocausto.

La nuda realtà dello sterminio di sei milioni di ebrei presenta un ostacolo apparentemente insormontabile se lo si vuole affrontare dal punto di vista teologico: come è possibile credere in Dio dopo quanto è accaduto? E tutta l’opera di Wiesel non è altro che un tendere appassionato oltre questa barriera verso una nuova comprensione e fede. Egli non si ritira in un facile ateismo così come non accetta di nascondere la testa nella sabbia di una fede ottimistica. Quello che Wiesel invoca è una fiera lotta con l’Olocausto, e la sua opera affronta una questione ben più profonda: come è possibile non credere in Dio dopo quello che è accaduto?

E qui si arriva a toccare il problema della fede. Dopo la distruzione del secondo Tempio gli ebrei erano a un bivio: porre fine alle loro sofferenze negando la fede e assimilandosi alla società che li circondava, oppure andare avanti e ricostruire sulle ceneri. Wiesel suggerisce che il Talmud fu il ‘tempio’ costruito quando gli ebrei scelsero la seconda strada. “Il Talmud fu concepito e scritto come un atto di sfida”, come se i Saggi volessero dire a Dio che si rifiutavano di cedere e di smettere di aver fede.

La sfida come mezzo per andare oltre la disperazione e perfino come mezzo per sopravvivere non è estranea alla tradizione ebraica: l’ebreo può conservare la sua umanità solo se si mette in contrasto con Dio e la Sua apparente indifferenza alle sofferenze, e insiste nella sua fede a dispetto di tutto. ”Un uomo pio fuggiva dal suo paese con la moglie e i figli; nel deserto la fame la sete le malattie avevano ucciso tutti e lui era l’unico superstite. Il dolore troppo grande lo fece svenire. Quando rinvenne si guardò attorno, poi guardò in alto e si rivolse a Dio: ‘Signore dell’Universo, lo so cosa vuoi, Tu vuoi che io smetta di credere in Te, ma non ci riuscirai. Ascoltami bene, non ci riuscirai’.”

“Dopo la guerra io ero l’accusatore, Dio l’accusato”: Wiesel ha scelto questa risposta all’Olocausto; lui e gli altri sopravvissuti avevano ogni ragione per negare Dio e ogni cosa sacra, avevano mille motivi per diventare nichilisti feroci, armarsi, avevano diritto alla vendetta e alla rappresaglia. Cosa fecero invece appena liberati dai campi di morte? Essi celebrarono i servizi religiosi. Per render grazie a Dio? No, per sfidarLo, per dirGli: noi abbiamo scelto di restare umani.

Come si può avere ancora fede in Dio è, secondo le sue parole, la domanda inevitabile che più spesso si sente rivolgere durante dibattiti o conferenze. Io ho fede, una fede ferita.

C’è un suo aneddoto, non una barzelletta, che aiuta a spiegare come dopo Auschwitz, dopo l’orrore, quelli che l’hanno vissuto siano arrabbiati con Dio, ma non per questo abbiano abbandonato la fede.

Alcuni ebrei ad Auschwitz mettono sotto processo Dio accusandolo di crudeltà e di tradimento. Dio viene riconosciuto colpevole e condannato a morte. Il rabbino-giudice pronuncia il verdetto, poi guarda in alto e dice che l’udienza è tolta perché è giunta l’ora di dire le preghiere della sera.

Ciò naturalmente non esaurisce tutta la visione di Wiesel: “Io voglio seguire la tradizione di mio padre e di mio nonno e del nonno di mio nonno, non mi sento di spezzare questa catena”.