di Nathan Greppi
Cimentarsi in forme d’arte molto diverse tra loro, come la narrativa da un lato e il cinema dall’altro, non è un esercizio alla portata di tutti: tra coloro che ci sono riusciti vi è lo scrittore e regista israeliano Etgar Keret, che il 21 novembre sarà al Castello Sforzesco di Milano per presentare il suo cortometraggio Outside, realizzato durante la pandemia. In vista dell’incontro, organizzato in seno alla fiera Bookcity in collaborazione con la Fondazione CDEC, Keret ha concesso un’intervista a Mosaico in linea da Berlino, dove risiede dopo essersi preso un anno sabbatico dall’Università Ben Gurion del Negev dove insegna.
Come è nata l’idea alla base del corto?
Durante la prima quarantena, in Israele, tutto si era fermato. Io vivevo vicino alla via principale di Tel Aviv, Dizengoff Street, che era talmente vuota che riuscivo a sentire gli uccelli; è stata la prima volta che sono riuscivo a sentirli dal mio balcone in un giorno che non fosse Yom Kippur. Il giorno dopo che la quarantena è finita, uscì per incontrare la gente fuori entusiasta, ma era molto diverso da come me lo immaginavo; uno scooter mi ha quasi investito e il guidatore mi ha mandato a quel paese, al bar c’era una forte puzza perché le persone non usavano il deodorante, e in generale tutto è andato storto. Allora sono tornato a casa, ho iniziato a scrivere la storia di com’era tornare fuori dal punto di vista di chi non vuole uscire di casa, perché scopre che non vuole più interagire con gli altri.
La storia che scrissi venne pubblicata sul New York Times, dove fu molto apprezzata dalla coreografa Inbal Pinto, con la quale decisi di collaborare. Di solito non mi va di adattare le mie stesse opere, perché penso che un buon adattamento derivi da una lettura originale del testo, mentre io non riesco a darne una diversa da quella che avevo in mente all’inizio. La visione che avevo in mente era fiabesca, del tipo “Alice nel paese del Covid”; questo perché le fiabe spesso rielaborano paure legate al mondo al di fuori della nostra casa.
Quali difficoltà ha riscontrato nel lavorare durante la pandemia?
Lo abbiamo girato subito dopo la fine della prima quarantena, e fin dall’inizio non riuscivamo ad ottenere i permessi per girare all’esterno. Inoltre, volevamo lavorare con un attore giapponese, che alle Olimpiadi di Tokyo fu tra i danzatori che si esibirono in una cerimonia per commemorare il Massacro di Monaco, che però non poteva prendere un volo per Israele. Dovevamo cercare di inserirlo nel corto senza averlo fisicamente vicino a noi. Come se non bastasse, l’ultimo giorno delle riprese un membro della produzione risultò positivo al Covid e dovette isolarsi.
A quel punto abbiamo cercato di sfruttare le costrizioni a nostro vantaggio, come quando nel judo sfrutti la carica dell’avversario per ribaltarlo. L’attore giapponese lo abbiamo seguito da remoto tramite un iPad, per cercare di cogliere dalla sua interpretazione un senso ancora più forte di isolamento e solitudine.
Lei scrive sia romanzi e racconti che sceneggiature per il cinema e la televisione: qual è la differenza nell’approccio?
Scrivere è molto intuitivo per me, quando scrivo le mie storie ci rifletto il mio flusso di coscienza; quando realizzo film invece serve molta più organizzazione e premeditazione. Diciamo che scrivere un racconto è come stare da soli con sé stessi, mentre girare un film è come andare ad una festa. Sebbene occorra fare numerosi compromessi, il vantaggio di realizzare pellicole è che ti permette di collaborare con altre persone di talento, senza le quali non riusciresti a raggiungere un certo risultato.
Prima della pandemia ha diretto la miniserie televisiva francese L’Agent immobilier; come si è trovato a lavorare in un contesto diverso da quello israeliano?
Mi ha dato la possibilità di lavorare nuovamente con la mia collaboratrice preferita, mia moglie Shira Geffen, con la quale avevo già diretto nel 2007 il film Meduse. Per la miniserie, mi ha permesso di collaborare anche con l’attore francese Mathieu Amalric, che ha recitato in alcuni film di Roman Polański e nel film di 007 Quantum of Solace.
La peculiarità principale del progetto stava nel fatto che io e Shira abbiamo diretto una serie che abbiamo scritto ma in una lingua che non parliamo; abbiamo scritto il copione in ebraico, venne tradotto in francese e noi sapevano cosa dicevano gli attori perché avevamo memorizzato le parole, ma senza conoscere la lingua. È ironico, perché tratti parti molto intime del tuo vissuto ma in una lingua che non parli. È stata una delle esperienze più belle che abbia mai fatto.
Per concludere, quali sono i suoi progetti futuri?
Attualmente sto curando una newsletter chiamata Alphabet Soup sulla piattaforma Substack. Siccome siamo in tempo di pandemia, e al momento sono in un paese dove non conosco nessuno, avevo paura di perdere il contatto con i miei lettori. Oltre a pubblicare racconti e articoli, invito i follower a collaborare; una volta mese mi faccio inviare vari suggerimenti su una storia da scrivere, ne scelgo una e dedico il testo scritto a chi me l’ha proposto.
In questo periodo gioco spesso con i miei contatti a “Obbligo o verità?”, così loro mi fanno domande o mi chiedono di fare cose semplici, tipo farmi crescere i baffi. Le mie storie vengono spesso illustrate da artisti come Asaf Hanuka, il vignettista israeliano che ha recentemente fatto un fumetto con Roberto Saviano. Inoltre, per la prima volta in vita mia sto pubblicando poesie: visto che forse non sono abbastanza buone per un libro, magari lo sono abbastanza per una newsletter. La cosa bella è che lo scrittore britannico Salman Rushdie, in un’intervista al Guardian, ha detto di aver deciso di aprire un profilo su Substack dopo aver visto la mia newsletter.