di Sandra Sicoli
Direttore della pinacoteca di Brera dal 1908 fino al 1936, allontanato da Milano perché in aperto dissidio con il gerarca fascista De Vecchi, Modigliani fu mandato all’Aquila e poi, come tutti i cittadini ebrei, nel 1938 venne cacciato dall’Amministrazione statale. Skira ha pubblicato le Memorie del grande Soprintendente
“Sappi dunque che per le recenti leggi razziali in Italia contro gli Ebrei io e mia moglie, siccome i nostri genitori erano di religione ebraica, siamo andati incontro a gravi pene. Immagina che io sono stato esplulso dall’Amministrazione dello Stato che pure ho servito per 37 anni nel modo che tu sai… Ci sarebbe da impazzire se noi fossimo gente meno forte che si lascia abbattere dalle disgrazie…”. È un uomo dolente, sconcertato, ma non vinto, l’Ettore Modigliani che nella primavera del 1939 scrive all’amico Alfred Longden, studioso d’arte inglese, circa la situazione della sua famiglia, alla quale, aggiunge “non mancherà mai nulla e tanto meno del necessario, ma immagina lo strazio mio e di mia moglie nel vedere e nel sapere tre uomini bravi, intelligenti e forti e desiderosi di lavorare per le loro famiglie, senza lavoro”. I tre uomini sono il figlio Arturo, il marito della figlia maggiore Bianca Maria e il marito della figlia minore, Norah. Le leggi razziali giungono a Modigliani come un fulmine a ciel sereno, sebbene egli si fosse già scontrato aspramente con il regime fascista, al quale non aveva mai aderito. Un caso molto raro, come è noto, nel mondo universitario e dei musei.
Prima ancora dell’espulsione dall’amministrazione statale nell’autunno 1938, Modigliani era stato allontanato dalla sua Brera e dalla sua Milano, città d’elezione (era nato a Roma nel 1873), nel 1935, “esiliato” – come egli scrive – alla Soprintendenza dell’Aquila, un “borgo” dove, “per soffocare l’amarezza e la solitudine”, decise di scrivere un libro (Mentore. Guida allo studio dell’arte italiana) che potè essere pubblicato nel 1940 solo grazie alla generosità della “valorosa” collaboratrice Fernanda Wittgens che ne appose, con tutti i rischi del caso, la firma, vietata agli autori ebrei (è giusto ricordare che la Wittgens patì il carcere per aver aiutato alcuni ebrei). L’oggetto della rappresaglia è la querelle circa la proprietà del Cenacolo vinciano che il potente “quadrimviro” e ambasciatore presso la Santa Sede, Cesare Maria De Vecchi, rivendicava per il Vaticano. Già nel 1924 l’Ordine domenicano di Santa Maria delle Grazie era riuscito con pretestuose rivendicazioni a rientrare in possesso del convento della chiesa che, dopo la demanializzazione napoleonica di fine Settecento, era diventato patrimonio pubblico italiano. Grazie all’appoggio di De Vecchi i domenicani insistevano con caparbietà presso Mussolini per ottenere la proprietà dell’intero complesso monumentale, compresa la ricca biblioteca. Il soprintendente Modigliani si oppose e difese strenuamente la sua idea in qualità di servitore dello Stato. Una posizione pagata duramente. Infatti, non appena il gerarca fascista venne nominato nel 1935 ministro dell’Educazione Nazionale (carica che poi sarà ricoperta da Giuseppe Bottai), ordinò a Modigliani dapprima di trasferirsi a Palermo e di lì a poco all’Aquila. La vicenda è stata ricostruita da Amalia Pacia, nel volume Ettore Modigliani. Memorie. La vita movimentata di un grande soprintendente di Brera (Skira, 2018). È l’autobiografia che egli iniziò a scrivere, come ipotizza il nipote Enrico Pontremoli che conservò il dattiloscritto del nonno, nell’autunno 1943 quando fu costretto a nascondersi insieme alla famiglia, nei casolari di Porchia, in provincia di Ascoli Piceno: “La vita ritiratissima che conducevo dalla metà del ‘40 non valse a risparmiarmi altre, e ancora più gravi, peripezie… Il 15 ottobre… cominciò il nostro calvario. Per molte settimane peregrinammo nelle colline dell’Ascolano da un casolare all’altro, non di rado dormendovi soltanto e girovagando a notte per far perdere le nostre tracce già sviate da false voci da me fatte circolare in continuazione… accolti sempre dalla bontà degli umili, ma osteggiati non di rado dalla viltà di qualche proprietario di fondi”. Le Memorie si chiudono l’11 febbraio 1946, il giorno prima del suo reintegro a Brera come soprintendente e direttore di una pinacoteca che “è – scrive – un ammasso di macerie, una catasta di travi incenerite, una sfilata di muri neri su cui s’apre il cielo”.
La vicenda di Ettore Modigliani, fino ad ora poco conosciuta, è esemplare e istruttiva nello stesso tempo. È stato probabilmente il più importante funzionario delle Belle Arti, apprezzato non solo in Italia, ma anche in ambito internazionale, grazie ai suoi prestigiosi incarichi istituzionali, primo fra tutti il delicato compito della restituzione delle opere d’arte trafugate dall’Austria all’Italia, discussa a Parigi in occasione della Conferenza della Pace (1920, “Trattato di S. Germain”). Una vicenda rilevantissima, gestita in accordo con il generale Roberto Segre del Comando Supremo dell’Esercito, che confermò le doti di leale diplomatico di Modigliani e che garantì all’Italia il recupero del proprio patrimonio artistico, illegittimamente asportato. Un solo esempio: il ritorno della serie dei nove colossali arazzi con le storie degli Atti degli Apostoli, tessuti a Bruxelles a fine Cinquecento sui disegni di Raffaello. Erano stati prelevati nel 1866 dai saloni di Palazzo Ducale di Mantova ed erano conservati a Vienna. Ma ci fu forse un altro episodio che gli diede ancora maggiore visibilità. Si tratta della straordinaria mostra allestita a Londra alla Royal Academy of Arts Italian Art 1200-1900, nel gennaio 1930. Vi erano esposte 962 opere, tra dipinti, sculture, disegni, bronzi, arazzi, codici miniati…, di cui la metà, 484, provenienti dall’Italia, un numero enorme. Ettore Modigliani era stato nominato Commissario Generale della mostra, che significava concretamente dovere pensare a tutto: dalla scelta e dalla raccolta dei beni provenienti dall’Italia; alla cura dei contatti (tutte le complicate pratiche delle autorizzazioni e delle esportazioni); agli imballaggi e ai trasporti, un compito come si può intuire molto delicato. Era un’operazione da far tremare i polsi.
Dall’Italia si imbarcavano per la prima volta dipinti quali la Flagellazione di Piero della Francesca, la Nascita di Venere di Botticelli, il Cristo morto del Mantegna; sculture di Donatello, del Verrocchio e capolavori simili. Nel giro di pochi mesi, dalla primavera del 1929, quando venne contattato dal governo, Modigliani si gettò in un’impresa proibitiva anche per i non facili rapporti con il Comitato inglese rappresentato da Lady Chamberlain, moglie di Sir Austen Chamberlain, primo ministro inglese. Dopo un lavoro “intenso e febbrile”, tutte le opere furono trasportate su la “Leonardo da Vinci”, il piroscafo ormeggiato a Genova, pronta a salpare. Era il 4 dicembre. Fu un viaggio apocalittico, con ore di bufera e di raffiche di vento violentissime. Ma alla fine, dopo circa una settimana di navigazione, con il fiato sospeso di tutto il mondo (e le cronache sono molto interessanti), la “Leonardo” (la “Treasury Ship” inglese), attraccò nei Docks di Londra. Ad attendere Modigliani è il già citato Mister Longden, l’amico che gli rimase vicino anche nei momenti più difficili delle persecuzioni.
Dopo questa “epica” avventura, Modigliani ritornò in Italia per dedicarsi alla pinacoteca di Brera e al suo lavoro di sovrintendente. Due impegni che lo avevano sempre appassionato da quando, poco più che trentenne, era giunto a Milano a dirigere Brera e poco dopo (1910) la soprintendenza della Lombardia. Il giovane studioso si era già fatto conoscere nel mondo delle Belle Arti: ha fama di buon conoscitore e di avere proposto acquisti importanti per la Galleria Borghese, il museo dove per primo prestò servizio, dal 1902, dopo la laurea in storia dell’arte con Adolfo Venturi.
Giunto a Milano in un clima non particolarmente accogliente (“Occupai il mio posto a Brera in mezzo all’infuriare di polemiche giornalistiche”), si mette subito all’opera, progettando un riallestimento delle sale braidensi. Ma il progetto si interruppe nel 1915 allo scoppio della guerra.
La pinacoteca venne chiusa, le opere più significative messe nelle casse e nascoste in locali protetti, in attesa di essere trasferite in un luogo più sicuro. Venne scelta Roma, Palazzo Venezia. Un rifugio non solo per i dipinti di Brera, ma per le opere di pregio di tutta la Lombardia, musei e complessi chiesastici compresi. Ma il riallestimento della pinacoteca non venne accantonato e la nuova Brera venne inaugurata, con grandissimo apprezzamento anche della stampa estera, nel luglio 1925.
Questa è stata la “vita movimentata” di Ettore Modigliani, al quale a Lucca, nel dicembre 2018, è stato dedicato il convegno “Fraternità artistica e solidarietà umana. Ettore Modigliani Soprintendente dal primo Novecento alle Leggi razziali”. Il merito va a Emanuele Pellegrini della Scuola Alti Studi di Lucca che ha deciso di impegnare i fondi destinati dalla Regione Toscana alle celebrazioni dell’anniversario delle Leggi razziali per far luce su, come egli scrive, “Un soprintendente dimenticato”. Ora fortunatamente ne sappiamo di più e grazie al convegno, i cui Atti sono di prossima pubblicazione sempre per Skira, si è avviato un primo studio su “Leggi razziali e storici dell’arte”, a cura di Donata Levi. Un tema finora mai affrontato in tutta la sua complessità: dall’epurazione, al reintegro, agli effetti sulla disciplina storico artistica degli infamanti provvedimenti. Un primo passo molto importante.