di Ugo Volli
27 gennaio, Giorno della Memoria. Gli studi sui nuovi documenti d’archivio di Pio XII. La certezza definitiva che il papa sapeva. Le “anime tiepide” e la politica Vaticana durante la Shoah. I rapporti tra Chiesa cattolica ed Ebraismo? Al minimo. Un cammino accidentato, doloroso (per gli ebrei). E adesso? Battute d’arresto, passi indietro e una attualità sconcertante. Nel passato, le amare ragioni dell’oggi
Le manifestazioni di odio anti-israeliano che si sono succedute nella stampa e nelle città di mezzo mondo, durante l’ultimo anno, hanno fatto emergere un fondo antisemita che si credeva fosse stato definitivamente superato dal ricordo della Shoah. Questo ritorno di un atteggiamento pregiudiziale contro Israele e gli ebrei ha toccato in alcuni momenti anche i vertici della Chiesa, con cui pure negli ultimi decenni il mondo ebraico ha intrecciato un dialogo che sembrava capace di cancellare i vecchi pregiudizi.
Per questa ragione oggi è necessario ritornare a esaminare da vicino l’atteggiamento della Chiesa e dei politici cattolici nella prima metà del secolo scorso, non solo negli anni tremendi della Shoah, ma anche nel periodo in cui si accumularono le premesse che la resero possibile e nel periodo immediatamente successivo.
L’apertura dell’archivio delle carte del pontificato di Pio XII nel 2020 ha prodotto molte ricerche storiche che danno nuove informazioni su questo tema, dibattuto da decenni; da allora vi sono stati molti lavori storici, che permettono ormai di capire bene quel che è successo. Il primo a pubblicare novità rilevanti è stato lo storico ebreo americano David Kertzer (Un papa in guerra, Garzanti 2022); vi è stato poi un largo dibattito; di recente è uscito un altro libro molto significativo, Les âmes tiedes – Le Vatican face à la Shoah di Nina Valbosquet (La Decouverte, Paris, 2024 ancora non tradotto in italiano).
A partire dallo scandalo del Vicario. un’opera teatrale scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth nel 1963 in cui si accusava direttamente Pio XII di essere stato il “papa di Hitler”, la questione del rapporto del mondo cristiano con il genocidio nazista è stata molto personalizzata sulla figura di questo papa. Tale focalizzazione è certamente giustificata dal fatto che la Chiesa cattolica ottant’anni fa, ancor più di oggi, era un organismo verticistico controllato in maniera assoluta dal papa regnante e Pacelli, dopo essere stato nunzio apostolico in Germania fra il 1917 e il 1929, durante gli anni cioè in cui si formò il partito nazista, e segretario di Stato (cioè ministro degli esteri del Vaticano) negli anni della sua affermazione (dal ‘29 al ‘39) regnò dal marzo del 1939 a ottobre del 1958, cioè per l’intero periodo del genocidio e per gli anni successivi.
I documenti emersi dagli archivi mostrano che ci fu certamente una linea politica precisa, decisa da lui, di “neutralità assoluta” rispetto al nazismo e dunque di sostanziale silenzio sulla Shoah, su cui aveva informazioni precise e aggiornate. Ma fanno vedere anche che queste scelte erano solo il vertice di un atteggiamento generale largamente condiviso della Chiesa, anzi delle chiese cristiane.
Per capire questo atteggiamento è necessario richiamare prima almeno sommariamente una storia lunga e complessa di rapporti fra cristianesimo ed ebraismo.
Un rapporto in quattro fasi
Si possono distinguere quattro momenti. Nei primissimi anni dopo la predicazione evangelica, i cristiani erano ancora prevalentemente ebrei, un gruppo che scelse di non partecipare alla lotta disperata del popolo ebraico contro i Romani, scagionandoli dalla morte di Gesù da loro decisa ed eseguita, per attribuirne la colpa al popolo ebraico.
I Vangeli e gli altri documenti delle Scritture cristiane portano la traccia di questa separazione, che ebbe aspetti molto polemici da entrambe le parti.
La polemica cristiana contro gli ebrei non si placò nei secoli successivi e determinò conseguenze giuridiche a partire dal IV secolo, quando l’impero romano si cristianizzò.
In questa seconda fase si formò la politica fondamentale della Chiesa nei confronti degli ebrei: non sterminarli direttamente, dato che testimoniavano la verità del cristianesimo con il loro “Antico Testamento”, pur senza accettarla; tenerli invece in uno stato di soggezione, di miseria e di umiliazione estrema per punirli della loro “miscredenza” e incoraggiarne la conversione.
Le stragi però avvennero e divennero sempre più frequenti nella terza fase, a partire dalle crociate, insieme alle espulsioni, alla reclusione nei ghetti, alle distruzioni di intere comunità, ai roghi di libri e spesso di esseri umani, alle accuse grottesche di usare il sangue umano per la confezione del pane azzimo, di avvelenare i pozzi, di spargere le epidemie. Alcuni di questi crimini atroci non furono approvati dai vertici della Chiesa e dai sovrani cristiani, tanto erano inumani e pretestuosi. Ma il fondamento di questa incessante persecuzione era religioso ed essa fu sempre incoraggiata dalla predicazione di frati, vescovi, preti e da un’incessante opera di propaganda nelle Chiese, nelle opere d’arte, negli scritti. L’odio per gli ebrei fu diffuso anche dalle più grandi personalità religiose cattoliche e poi, dopo il Cinquecento, anche dai riformati, a partire da Martin Lutero.
La scia di sangue delle persecuzioni dell’antisemitismo religioso si spense progressivamente con la perdita del potere clericale, a partire dalla Rivoluzione francese. Ma l’impronta dell’odio per gli ebrei non sparì dalla cultura cristiana, anzi si approfondì con la quarta fase iniziata nell’Ottocento. La Chiesa ora rimproverava in particolare agli ebrei l’affermazione della modernità, del liberalismo, della libertà politica e religiosa, della massoneria, in seguito del socialismo e del “bolscevismo”, che percepiva come suoi nemici mortali.
La civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti fondata nel 1850 che fu da subito l’organo ufficioso della Santa Sede, condusse per decenni un’intensa campagna antiebraica su temi politico-sociali ancor più che religiosi, rimproverando agli ebrei tutti i mali del mondo moderno.
Due casi: Mortara e Dreyfus
Due eventi clamorosi confermarono questa posizione. Il primo fu il “caso Mortara”, il sequestro nel 1858 da parte dei gendarmi vaticani di un bambino ebreo di Bologna, che una domestica licenziata asseriva di aver battezzato clandestinamente e che non fu riconsegnato alla famiglia nonostante una grande mobilitazione in tutt’Europa. Il secondo, ancora più aspro, fu il caso Dreyfus, la falsa accusa di tradimento a un ufficiale francese che aveva il torto di essere fra i primissimi ebrei arrivati allo Stato Maggiore. In entrambi i casi la stampa e la gerarchia cattolica si impegnarono con tutte le loro forze contro “le pretese degli ebrei”.
Nascevano nel frattempo, da una matrice clericale, numerosi movimenti esplicitamente antisemiti, per esempio in Francia l’Action française e in Austria il Partito Cristiano Sociale di Karl Luger, che divenne sindaco di Vienna e fu preso come modello per il suo antisemitismo non solo dai nazisti, ma anche dal padre fondatore della Democrazia Cristiana italiana Alcide De Gasperi, come racconta un libro recente dello storico milanese Augusto Sartorelli, (L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen, 2024).
Questo è lo sfondo su cui va letto l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla Shoah: un profondo e diffuso sospetto, venato di disprezzo, per gli ebrei, per le loro “colpe” teologiche (il “deicidio”) ma anche perché protagonisti della modernità che la Chiesa combatteva. La Chiesa non rifiutava un “antisemitismo moderato” (per “la difesa dell’interesse dei popoli” e della “religione”) ma era contraria al razzismo antisemita, che faceva dell’appartenenza al popolo ebraico una colpa genetica incancellabile. Pensava che il battesimo potesse lavare questa appartenenza e quindi si impegnò a difendere soprattutto quelli che chiamava “cattolici non ariani” (una definizione eufemistica di per sé razzista), cercando di sottrarli alla persecuzione nazista, peraltro spesso senza riuscirci. Il libro di Nina Valbosquet racconta molte di queste storie, per esempio quella dei 3000 visti concessi dal Brasile “per omaggio al papa” a ebrei convertiti, che poterono essere utilizzati solo in parte, per le resistenze burocratiche in Brasile e nei paesi di passaggio e per la decisione nazista di bloccare ogni uscita dalla Germania e dai paesi occupati a partire dall’ottobre del 1941. Quanto agli altri ebrei, rimasti tali, vi furono degli interventi cattolici di soccorso economico e in certi casi di rifugio, ma essi vennero prevalentemente dalla periferia dell’istituzione ecclesiastica, da singoli vescovi, conventi di frati e di suore, religiosi di buona volontà.
Il Vaticano accettò alcune proposte di donazione di fondi, soprattutto di provenienza americana, da distribuire ai perseguitati “senza discriminazione di appartenenza religiosa”, ma badò bene a non farsi coinvolgere troppo in queste iniziative e soprattutto di rispettare le norme stabilite dagli Stati antisemiti. Nei luoghi in cui aveva molta influenza, come la Slovacchia governata da un prete, Monsignor Tiso, o la Croazia degli ustascia su cui l’arcivescovo Viktor Stepinac aveva grande autorità, o anche l’Italia fascista, i documenti ora consultabili mostrano che il Vaticano non condannò la legislazione antiebraica o le deportazioni, ma chiese per via diplomatica che esse fossero applicate con clemenza; la sola opposizione esplicita, ma pur sempre assai prudente, riguardò lì come altrove i domini che la Chiesa considerava di sua esclusiva competenza, come i matrimoni misti e la loro prole o gli ebrei convertiti.
Sul piano delle prese di posizioni ufficiali e pubbliche, Pio XII mantenne il silenzio, evitando ogni intervento anche indiretto, salvo che in due occasioni: un discorso riservato al collegio cardinalizio del giugno del 1942 e il messaggio natalizio del 1942, in cui il papa, dopo una ventina di pagine di testo dedicato ai più vari problemi e avendo appena nominato caduti in guerra, loro vedove e orfani, popolazioni esiliate, vittime dei bombardamenti e altri danni bellici, faceva un accenno piuttosto vago: “Questo voto [di “non darsi riposo, finché … divenga legione la schiera di coloro, che … anelano al servizio della persona e della sua comunanza nobilitata in Dio”] l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”.
Il Vaticano, invitato a farlo, rifiutò categoricamente di sottoscrivere la dichiarazione interalleata del 17 dicembre 1942 di denuncia dello sterminio ebraico operato dai nazisti, formulata dai governi delle Nazioni Unite.
Si è sostenuto che il papa rifiutasse di intervenire non solo per la scelta esplicita di mantenere la neutralità della Santa Sede, esattamente “come nella prima guerra mondiale”, ma anche perché non aveva informazioni sufficienti sulla Shoah. I documenti fanno giustizia di questa scusa. In Vaticano arrivarono fin dal 1939 relazioni dettagliate, anche di fonti vescovili, sulla prima fase della “Shoah dei proiettili” in Polonia e in Ucraina e da allora non cessarono di giungere testimonianze e relazioni continue e ben accreditate di testimoni sulle diverse fasi del genocidio, insieme a numerose richieste di aiuto. Insomma, il Vaticano sapeva. Valbosquet ha notato che nelle carte si trovano spesso commenti che invitano a diffidare da questi appelli perché “si sa, gli ebrei esagerano sempre”.
Anche quando la persecuzione degli ebrei raggiunse le soglie del Vaticano, con il rastrellamento di Roma del 16 ottobre del 1943, non vi fu una presa di posizione pubblica del Papa, che è per ufficio anche il vescovo di Roma, ma solo cauti contatti verbali con l’ambasciatore tedesco, soprattutto allo scopo di ottenere il rilascio dei “cattolici non ariani”. Il papa continuò a non parlare contro i nazisti anche dopo la liberazione di Roma. In quel momento, quando sotto la spinta degli alleati il governo Badoglio stava decidendo di abolire le leggi razziste, il gesuita Pietro Tacchi Venturi, che era stato l’intermediario preferito del Vaticano col fascismo, fu mandato al ministero degli Interni allo scopo di difendere “una legge la quale, secondo i princìpi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e sui matrimoni misti, ndr), ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”.
L’ultimo atto di questa storia fu la difficile disputa per recuperare i bambini ebrei rifugiati senza genitori in istituzioni cattoliche, che il Vaticano non voleva riconsegnare alle famiglie – salvo esservi obbligato dalla magistratura.
Com’è noto, ci volle il Concilio Vaticano II, la dichiarazione Nostra Aetate (approvata nel 1965, vent’anni dopo la caduta del nazismo) perché apparisse superato l’antigiudaismo cristiano. La prima visita di un papa in sinagoga che compì Giovanni Paolo II nel 1986 e il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede nel 1993 (ultima degli Stati europei) diedero l’impressione che l’“odio antico” fosse stato finalmente superato. Sembrava potersi aprire allora una fase straordinaria di dialogo e di amicizia.
Oggi queste realizzazioni non appaiono annullate, ma certamente congelate, bloccate da una volontà anti-israeliana che si esprime in molti gesti, dall’evocazione nell’ultimo libro del Papa di un possibile “genocidio” che potrebbe essere stato commesso da Israele a Gaza, alla presentazione solenne in Vaticano di un presepe in cui Gesù bambino appare avvolto in una kefiah, accreditando la falsità storica della propaganda palestinese. È difficile dire oggi se si tratti solo di una mossa politica o del riemergere di una tendenza quasi bimillenaria al rifiuto cristiano per gli ebrei. Ma certamente essa obbliga a ripensare a quel che la Chiesa ha fatto (e non ha fatto) durante la Shoah e a collocare quella fase, e l’attuale, nei tempi lunghi di un’inimicizia millenaria.
Libri: Augusto Sartorelli riscopre e spiega l’antisemitismo di Alcide De Gasperi
Alcide De Gasperi era antisemita. Ai più, l’abbinamento tra il suo nome e l’antisemitismo può apparire indebito, quasi una sorta di ossimoro. Come può l’avversione nei confronti degli ebrei aver caratterizzato la personalità dello statista cattolico e democratico trentino? Eppure, è così. Augusto Sartorelli, autore anche del fondamentale saggio Testimoni della nostra iniquità. La Chiesa e gli ebrei, racconta come e perché De Gasperi fu antisemita: il suo antisemitismo, sia pure non biologico-razziale, si manifestò con la parola e con gli scritti fin dagli esordi della sua militanza politica nel Tirolo asburgico e poi a Vienna nel corso degli anni universitari, e riaffiorò durante il suo esilio di antifascista presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, nei commenti di politica internazionale sull’Osservatore Romano e nel periodo di gestazione della legislazione razziale fascista. De Gasperi fu antisemita perché antisemita era la cultura del tempo ma soprattutto perché antisemita era la Chiesa. Dalla morte di De Gasperi sarebbero trascorsi ancora undici anni prima che la Chiesa, nel 1965, riconsiderasse con la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate il proprio atteggiamento nei confronti dell’Ebraismo e del popolo ebraico. A. C.
Augusto Sartorelli, L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen, pp. 198, euro 26,00.