Fuga in Svizzera: un angolo di pace o l’anticamera della deportazione? La copertina di Bet Magazine di gennaio

Personaggi e Storie

di Ilaria Myr

Giorno della Memoria. Quale fu il vero ruolo della Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale? Quali le sue politiche di accoglienza così altalenanti e contraddittorie? Chi fu respinto e chi accolto, chi fu salvato e chi “sommerso”? Lo narrano innumerevoli storie e resoconti, alcuni felici altri funesti. Eccone alcuni, quelli dei Gandus, degli Ascoli, dei Bonfiglioli… E una analisi di Liliana Picciotto

Il 25 e 26 settembre 1942, a Montreux si tenne la conferenza annuale dei direttori cantonali e federali delle polizie degli stranieri. In agenda c’era la politica svizzera nei confronti del crescente numero di rifugiati che tentavano di entrare nel paese, in particolare ebrei in fuga dai nazisti. «Qui da noi, come altrove, non è auspicabile che la popolazione ebrea superi una certa proporzione; la Svizzera non intende farsi guidare dagli ebrei, non più di quanto non vorrebbe essere guidata da un qualsiasi altro straniero… L’ebreo è difficilmente assimilabile… Non bisogna nemmeno dimenticare che molti di loro sono dei soggetti pericolosi per le nostre istituzioni, degli individui che hanno vissuto a lungo in paesi disorganizzati o mal approvvigionati nei quali si vive di espedienti. Sono abituati a condizioni in cui l’istinto affarista dell’ebreo tende a sfogarsi». Queste le parole pronunciate, in quel contesto, da Heinrich Rothmund capo dell’Ufficio federale della migrazione.

Ma quale fu la realtà dell’accoglienza elvetica verso gli ebrei in fuga dal nazifascismo? Quali le luci e le ombre? Dove e quanto l’aiuto reale o il respingimento? Lo abbiamo chiesto a Liliana Picciotto, storica della Fondazione CDEC.

Quanti ebrei si sono rifugiati in Svizzera durante quel periodo?
Il grande esperto dell’argomento gli ebrei italiani in Svizzera era Silvano Longhi, studioso italo-tedesco, purtroppo scomparso nel 2021 che veniva, per decine di giorni alla volta, a studiare in via Eupili e con il quale si era creato un bel sodalizio. Quello che so sull’argomento, l’ho appreso da lui.
I numeri che riguardano il rifugio svizzero per i profughi sono, secondo gli standard cui siamo abituati oggi, ridicolmente bassi. Si ricordi che nel 1940-1945 non si conoscevano i grandi flussi migratori determinati da guerre o da problemi economici. Fino ad allora, le popolazioni che avevano conosciuto l’esilio erano soprattutto ebrei dei Paesi dell’Est Europa che erano migrati verso le Americhe, spinti dagli antisemitismi locali.
I profughi civili presenti in Svizzera, alla fine del 1944, erano tra 41.000 e 51.000, mentre molti di più erano i profughi militari, quelli cioè entrati in Svizzera con la loro divisa, desiderosi di non servire nei loro Paesi, oppressi dal nazismo: circa 105.000.
Dall’Italia, tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, attraversarono la frontiera circa 14-15.000 persone: in maggioranza perseguitati politici (alti funzionari dello Stato, leader di partiti politici, noti intellettuali). Di questi, gli ebrei erano 4.265. Il che non è molto, ma non è neanche poco, dato che gli ebrei in Italia erano allora circa 40.000. Si può dire perciò che il 10% dell’ebraismo italiano si salvò grazie all’accoglienza da parte della Svizzera.

Quali erano le condizioni in cui si trovavano a vivere?
Il disagio principale dei profughi ebrei dall’Italia era, in generale, di non sapere più che cosa stesse succedendo in Italia. In patria, parenti e famigliari continuavano ad essere arrestati e a sparire nel nulla, e di questo, qualche sentore si aveva anche in Svizzera.
Dopo l’arrivo e le procedure di accoglimento (ma non sempre, come si sa, si era accolti), la maggioranza dei profughi italiani, come i rifugiati dagli altri Paesi, passavano mesi nell’arcipelago dei campi svizzeri. L’attività assistenziale nei loro confronti era vasta e molto ben organizzata. Essi, pur nelle ristrettezze economiche in cui versavano, riuscirono a sviluppare una intensa attività nel campo della cultura, nella pubblicistica e nell’istruzione, dove erano attivi sia come organizzatori, sia come insegnanti, sia come scolari e studenti universitari. Gli ebrei italiani venivano da 5 anni di persecuzioni razziste e l’esilio svizzero fu per loro una boccata d’aria e una possibilità di intravedere un futuro migliore, una volta che la guerra fosse finita e fossero ritornati in Italia.

Luci e ombre della fuga in Svizzera, e dell’atteggiamento della Svizzera nei confronti degli ebrei.
Per gli ebrei, la fuga nella neutrale Svizzera divenne presto, dopo l’8 settembre del 1943, una necessità vitale. Ma i rischi nell’intraprendere quella decisione erano molto alti. Il solo avvicinamento alla frontiera, con posti di blocco e controlli sui treni, era molto pericoloso. Inoltre, lo sconfinamento avveniva a piedi, con guide talvolta infide. La frontiera era guardata sia dalla parte italiana, sia dalla parte svizzera e ci furono molti arresti in territorio italiano prima ancora del tentativo di sconfinamento. La politica svizzera verso l’accoglimento degli ebrei non fu lineare: variava non solo secondo il periodo, ma anche secondo il cantone di frontiera. I segnali ufficiali di apertura o chiusura raggiungevano difficilmente chi desiderava passare in Svizzera e l’opzione accolto/respinto restava sempre drammaticamente aperta.
Inoltre, al confine ticinese c’erano questioni di competenza e di interpretazione di disposizioni non chiare, soprattutto se diramate da Berna solo verbalmente. La politica altalenante svizzera cessò nell’estate del 1944 quando, finalmente, tutti i fuggitivi ebrei vennero, senza eccezioni, accolti.