di David Zebuloni
La “Loren israeliana”, in una intervista esclusiva a cuore aperto, parla del rapporto tormentato e difficile, ma anche straordinariamente ricco di umanità e amore, con sua madre
Gila Almagor è la Sofia Loren israeliana. Bella, bellissima. Di una bellezza aristocratica e al contempo popolare. Una bellezza intelligente, che si racchiude talvolta in uno sguardo. Come la Loren, anche Gila Almagor è considerata una delle più grandi attrici della nostra epoca. Musa ispiratrice di Steven Spielberg nel film Munich e protagonista dei più grandi successi cinematografici israeliani della storia, pare impossibile che Gila sia cresciuta nella povertà più assoluta, all’ombra di una madre impazzita a causa della guerra, convinta di essere sopravvissuta ai campi di sterminio, nonostante di fatto non ci fosse mai stata. Una storia tanto straordinaria da essere diventata prima un libro autobiografico, L’estate di Aviha, best seller tradotto in più di venti lingue (in Italia pubblicato da Acquario), e poi un film dal medesimo titolo, uno dei più importanti della storia del cinema israeliano. Della sua infanzia, di quell’epoca tanto sofferta, a Gila Almagor rimane lo spirito di combattimento e di sopravvivenza. Non a caso in molti raccontano che sia impossibile lavorare con lei, che se perde lo staffe è capace di lasciare il palcoscenico a metà spettacolo e tornarsene a casa, che è intransigente e si comporta da diva. L’ultima (o forse l’unica?) diva del cinema israeliano. Accolto nel salotto di casa sua a Tel Aviv, scopro invece una donna dolcissima. Una “nonna” che, tra una domanda e l’altra, mi rimpinza di tè e dolcetti, frutta secca e cioccolatini. Mi invita a restare con lei dopo l’intervista, per chiacchierare ancora e ancora. Che mi abbraccia e mi chiede di tornare a farle visita. Mi chiama poi per farmi gli auguri di buon compleanno e si raccomanda di salutare tanto la mamma.
Superata la soglia degli ottant’anni, Gila Almagor sembra essersi riappacificata con se stessa e con i mostri del passato. Il volto disteso, il sorriso affettuoso, gli occhi perennemente lucidi: in lei non vedo traccia di quell’attrice capricciosa di cui tanto si è parlato nei media, della diva irraggiungibile e osannata dalla critica. In lei non c’è nemmeno più traccia della bambina sfortunata che è stata, ma solo la passione per la vita e per il suo lavoro. «Non ho alcuna intenzione di smettere di recitare – mi confessa prima di salutarci. – Mi esibirò fino all’ultimo respiro».
La guardo, la osservo e vedo una bellissima signora, seduta su un elegante divano in un salotto aristocratico. Tutto sembra così perfetto in lei e attorno a lei, che mi domando che fine abbia fatto la bambina infelice che è stata.
Non ritengo di aver avuto un’infanzia infelice, ma solo diversa dalla norma. Per certi aspetti, un’infanzia privilegiata. Ad esempio, io non ho mai dovuto affrontare la fame o la guerra. L’unica vera grande mancanza della mia vita era il mio papà, che non ho mai conosciuto, ucciso da un cecchino arabo quando io ero ancora nella pancia della mia mamma. Una mamma peraltro che aveva dei gravi disturbi mentali e che non ha mai voluto raccontarmi nulla di lui. Quando le chiedevo chi fosse il mio papà, lei mi rispondeva: “Un bell’uomo con una bella voce”. Poi aggiungeva: “Spegni la luce, che non siamo i Rothschild”.
Cosa significa, per una bambina, crescere all’ombra di una madre con dei disturbi mentali?
Era come stare sulle montagne russe. Un attimo prima toccavamo il cielo con un dito e un attimo dopo sprofondavamo nell’abisso. Un attimo prima la mamma era felice, lucida, normale e un attimo dopo era completamente assente, triste, persa nel vuoto. Non mi abbracciava mai, non mi accarezzava mai. Aveva degli attacchi psicotici in cui urlava come una pazza. Tutto il vicinato la sentiva gridare.
Cosa si diceva di lei nel vicinato?
Che era una pazza, che bisognava starle lontano. A volte i bambini venivano a bussare alla nostra porta e gridavano: “Abita qui la pazza?”. Ma io non stavo di certo lì ad incassare i colpi senza reagire. Guai se qualcuno derideva la mia mamma. Ero una bambina selvaggia io, una bambina violenta. Picchiavo chi si prendeva gioco di noi. Una volta tornai a casa tutta sporca di sangue e fango e la mia mamma vedendomi entrare così mi disse: “Gila ricordati che nessuno può prendersela con un orfano. Nessuno può farti del male, nessuno”. La ascoltai sbalordita, era la prima volta che alludeva alla morte di mio padre.
Il suo monito l’accompagna ancora?
Spesso mi capita di sussurrare all’orecchio del collega gradasso di turno: “La mia mamma mi ha insegnato che non bisogna mai fare del male agli orfani”. Credimi, ancora oggi, quando qualcuno mi fa un torto, non esito a ripetere la sua frase.
Che cosa la spaventava di sua madre?
Temevo che la sua malattia fosse ereditaria. Temevo di diventare pazza anch’io. Quando sono cresciuta, mi sono consultata con i migliori medici del Paese. Ho incontrato decine di psicologi diversi. Tutti mi hanno detto che non avevo nulla da temere, che non avrei ereditato i suoi disturbi, che sarei rimasta sempre sana di mente.
La mamma invece si portava appresso tanti, troppi traumi. Aveva perso tutta la famiglia nei campi di sterminio. Parlo di 147 uomini e donne cancellati dai nazisti, diventati polvere nei cieli di Auschwitz. Lei si è salvata perché era già emigrata in Israele, ma era sola al mondo. È arrivata qui senza conoscere la lingua, senza avere un lavoro. È rimasta vedova all’età di ventitré anni. Pochi mesi dopo è diventata madre. Come fa una persona sola a sopportare tutto questo? È impossibile.
Cosa rappresentava Auschwitz per lei?
Quando arrivavano i superstiti di Auschwitz in Israele, lei andava sempre ad accoglierli. Sempre. Cercava tracce della sua famiglia scomparsa, ma non trovò mai nessuno. Trascorreva ore e ore a guardarli, a osservarli, a studiarli. Poi, quando tornava a casa, si incideva lungo tutto l’avambraccio dei numeri. Quando andai nel centro psichiatrico in cui morì, a prepararla per la sepoltura, notai che il suo braccio era interamente ricoperto di cicatrici. Capii immediatamente che quelle erano le tracce dei numeri che si era marchiata da sola.
Non capisco, voleva autoconvincersi di essere sopravvissuta ad Auschwitz?
Sin da molto piccola ho capito che il mondo si divide in due gruppi. C’è chi vuole ricordarsi i luoghi in cui non è mai stato e c’è chi vuole dimenticarsi i luoghi in cui è stato. La mia mamma ha sempre voluto ricordarsi quei luoghi in cui non è mai stata. Lei era assolutamente convinta di essere sopravvissuta ad Auschwitz. Non riusciva proprio ad accettare l’idea di essersi salvata in un altro modo, sapendo che il resto della famiglia era stato bruciato e gasato nel campo di sterminio. La Shoah era presente in casa nostra come un fantasma, come un’ombra. C’era sempre, anche se non la si poteva vedere.
Oggi prova rancore nei suoi confronti?
Assolutamente no, la mia mamma era una donna straordinaria. Pazza, ma straordinaria. Non la sostituirei per nulla al mondo. Ricordo che mi diceva sempre: “Povera la mia Gila, come le farà male la spalla quando morirò”. Io protestavo, mi opponevo, domandavo il motivo di quel dolore e lei mi spiegava: “Guai a te se dopo la mia morte non ti occuperai del prossimo, se non penserai ai più deboli. Io verrò a controllare, mi metterò seduta comoda sulla tua spalla e ti controllerò”. Era una donna estremamente generosa. Nonostante fossimo poveri, lei appendeva sempre tre sacchi alla finestra, affinché i meno fortunati di noi potessero beneficiare di un po’ di grano o di un vecchio abito.
Racconta di lei con l’empatia di una madre, non con la rabbia di una figlia.
Perché ero io la sua mamma. Ero io ad accudire lei. Quando uscivamo di casa, mi preoccupavo sempre che fosse vestita bene. Le mettevo il rossetto, la pettinavo. Un giorno le insegnai persino ad attraversare la strada. Pensa, all’epoca ero una bambina di otto anni. Ricordo che fermai tutte le macchine, la presi per mano e attraversammo insieme. Avanti e indietro, avanti e indietro. Nessuno si mosse, nessuno protestò, nessuno suonò il clacson. Tutti stettero immobili a guardare quello strano spettacolo, come ipnotizzati. Io non capivo perché la mia mamma destasse tanto interesse. Credevo che tutti fossero ammaliati dalla sua bellezza e per un attimo mi pentii persino di non averle fatto indossare il vestito blu con i puntini bianchi che tanto le stava bene. Quell’improbabile passerella meritava sicuramente un abito speciale.
La sua mamma, invece, è riuscita ad insegnarle qualcosa?
Quando ero una bambina, mia madre mi insegnò a mangiare una fetta di pane. Ricordo che strappò un piccolo angolo e lo mise da parte, per gli uccelli. Strappò un secondo angolo, un po’ più grande del precedente, e lo mise da parte per i poveri. Ciò che rimaneva della fetta, era per me. Ancora oggi, ottant’anni dopo, non mangio mai del pane senza spargerne prima qualche briciola sul davanzale della finestra.
Ha sempre cercato di fuggire dal suo passato e dalla sua infanzia tormentata; è riuscita a lasciarsi tutto alle spalle e ricostruirsi una vita, una famiglia, una carriera importante. Poi ha deciso di fare marcia indietro, riaprire la ferita e racchiudere la sua storia in un libro autobiografico. Perché?
C’è stato un periodo della mia vita in cui sono caduta in depressione. Erano anni bui, in cui non mi proponevano più dei ruoli interessanti. Non recitavo e non lavoravo, la mia carriera era in declino. Trascorrevo le giornate a letto, sotto le coperte, con le tende tirate. Un giorno mia figlia mi guardò e mi disse: “Mamma, io adesso vado a scuola, ma quando torno a casa non voglio vederti triste”. Aveva lo sguardo terrorizzato e io capii che il mio incubo più grande si stava realizzando. Stavo diventando come mia madre, anch’io terrorizzavo mia figlia come lei terrorizzava me. Le giurai che quando sarebbe tornata, mi avrebbe trovata diversa. Felice.
Corsi in bagno e misi la testa sotto il getto del lavandino. L’acqua ghiacciata mi calmò per un attimo, ripresi a respirare. Poi mi sedetti alla scrivania, aprii un quaderno, impugnai una penna e scrissi la mia storia. Tutta d’un fiato, senza pensarci, senza sapere cosa stessi facendo. Non avevo alcuna intenzione di pubblicarla. Quella era per me una cura, un rimedio al mio malessere. Dovevo assolutamente fare i conti con la bambina che ero stata.
Quando il libro è diventato un successo mondiale,L’estate di Aviha, ha deciso di fare una cosa ancor più sorprendente: tradurre l’opera letteraria in opera cinematografica e interpretare sul set proprio il ruolo di sua madre.
Dovevo fare i conti anche con lei. Dovevo interpretarla per riuscire a capirla a fondo. Dovevo riaprire la sua cicatrice per vedere che cosa si nascondesse sotto. Dopo le riprese, tornata a casa, ho riempito la vasca di schiuma, mi ci sono immersa e mi sono detta: “Vedi Gila? Tu sei un’attrice. Un attimo prima eri una pazza e adesso sei di nuovo normale. Brava Gila, sei proprio una brava attrice”. Me lo ripetevo all’infinito, per calmarmi da ciò che era appena accaduto. Per ricordarmi di non essere come la mia mamma, di essere diversa, normale. Una donna normale. Una donna felice.
Cos’è rimasto in lei di quella bambina?
Non do mai nulla per scontato io, mai. Rimane un senso di gratitudine profondo per tutto ciò che mi è capitato nella vita. Per essere stata amata e per essere riuscita ad amare. Per aver fatto della mia passione una professione. Il lavoro e l’amore sono le cose più importanti che io possieda, i doni più grandi della mia vita.
Qual è invece la vittoria più grande?
Mio padre se n’è andato molto giovane, senza essere riuscito a lasciare una traccia in questo mondo. Ecco, io credo di essere la sua traccia, la prova vivente della sua esistenza, affinché non venga mai dimenticato. Questa è la mia vittoria più grande.
Chi è Gila Almagor
Gila Almagor si è iscritta all’età di 15 anni a un corso teatrale alla Habima, il teatro di Tel Aviv e da lì, sotto la guida di Ya’kov Agmon, che è diventato poi suo marito e compagno di vita, ha iniziato la sua folgorante carriera teatrale e cinematografica. Ha frequentato anche i corsi di recitazione di Lee Strasberg e Uta Hagen a New York. Ha recitato in una cinquantina di film, alcuni dei quali diventati pietre miliari del cinema israeliano: con The House on Chelouche Street (1973), diretto da Moshe Mizrahi, ha ottenuto la nomination all’Oscar nel 1974. E poi tra i suoi film più noti all’estero ci sono: Munich di Spielberg nel 2007 e Il responsabile delle risorse umane, tratto dal romanzo di Yehoshua e diretto da Eran Riklis nel 2010.
Ha partecipato alle serie TV israeliane: A wonderful Country nel 2006 e Be-tipul (In Treatment), dal 2005 al 2008, con Assi Dayan. Per molti anni ha condotto anche un programma radiofonico. All’impegno professionale ha unito sempre quello civico e umanitario. Dal 1998 al 2004 ha fatto parte dell’amministrazione di Tel Aviv come assessore alla cultura e all’arte.
Nel 1985 ha scritto la sua autobiografia L’estate di Aviha: tradotto in venti lingue, fa parte del programma scolastico in Israele. Il libro è diventato poi un film dal medesimo titolo, considerato da molti il più iconico della storia del cinema israeliano. È stato proprio il film L’estate di Aviha a consacrare Gila Almagor come First Lady del teatro e del cinema israeliano.
(credito foto – xnet)