Giorno della Memoria: i salvati, i nascosti, gli expat

Personaggi e Storie

di Ester Moscati

Chi fugge, chi s’imbarca, chi si mimetizza. Storie di sopravvivenza, percorsi di memoria, tessere del puzzle storico degli anni bui del Novecento. Che onorano il ricordo di chi ha aiutato, protetto, nascosto, a rischio della propria vita. Salvando, così, anche l’idea dell’umanità
come valore possibile, anche nelle situazioni più avverse e crudeli

Elda Coen Moscati ha quarant’anni e due figli, una ragazzina di 14 e un bambino di 8. Le notizie del rastrellamento del Ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, hanno gettato nel panico la piccola comunità urbinate legata da legami familiari con gli ebrei romani. E ora i nazisti stanno arrivando anche in Urbino. La fuga al crepuscolo porta Elda in campagna; organizza, con poche coperte, un giaciglio di fortuna ai margini del sentiero. Un contadino passa e la riconosce: “Non sia mai che la figlia del Sor Angelo passi una notte senza un tetto sulla testa, perché se io ce l’ho, lo devo al suo Babbo” e la porta nella casa colonica che, grazie ad Angelo Coen, amministratore dell’Università, era riuscito a comprare qualche anno prima, quando l’ateneo aveva venduto i poderi e Coen aveva aiutato i contadini ad acquistarli. Peppe Basili e la moglie Angiolina proteggeranno per mesi Elda, Paola e Cesare, mentre il resto della famiglia si era nascosta, separandosi tra chiese di campagna, altre famiglie contadine e il monastero di Santa Caterina in Urbino. Una notte, alla porta del casolare dei Basili, bussa un uomo. La paura è tanta e tanta è la sorpresa e la commozione quando Elda si sente dire: “So che voi non mangiate lo strutto, vi ho portato l’ultima bottiglia di olio che mi è rimasta”. A bussare è un contadino. Nella zona tutti sapevano e tutti aiutavano.

La sorella di Elda, Lidia Coen Calabresi, aveva fatto una scelta diversa, già qualche anno prima: con il marito Carlo, medico a Padova, aveva preferito l’esilio a Caracas. “Oggi, 19 settembre 1939, col piroscafo Virgilio, Lidia, Carlo e Annalia sono partiti per l’America del Sud – scrive Elda nel suo Diario -. Nel Venezuela, a Caracas, li aspetta un’altra vita! Dio faccia che abbiano sempre tutte le fortune!”. Lì, però, la laurea in medicina conseguita in Italia non viene riconosciuta e quello che in patria era un medico già affermato e stimatissimo deve riprendere in mano i tomi di anatomia e sostenere di nuovo tutti gli esami. Nel frattempo Lidia, bellissima rampolla di una agiata famiglia, cresciuta tra cameriere e cuoche, ora in terra straniera, per mantenere la figlia e il marito “studente”, si mette a sfornare torte da vendere alle pasticcerie e alle signore della comunità ebraica di Caracas. Un paio di anni dopo, il marito, riconquistato a tempo di record il titolo, diventa medico della Comunità e poi dell’Ambasciata italiana.
La terza sorella, Ada, con il piccolo Aldo, trova rifugio nel Convento delle Suore di Santa Caterina. Quando dal Vaticano arriva l’ordine di allontanare gli ebrei perché i tedeschi sono troppo vicini e sospettosi, la Madre superiora Giuliana Camillini risponde “Se dobbiamo morire, moriremo insieme”.
Storie di nascosti, di salvati ed espatriati; storie di ebrei che hanno potuto raccontare a figli e nipoti la sopravvivenza ai tempi dell’orrore.

La famiglia di piazza Stamira
A un’altra famiglia marchigiana ha di recente dedicato un libro Marco Cavallarin, La famiglia di piazza Stamira. Una famiglia ebraica anconetana nei fatti del Novecento, (Affinità Elettive, pp. 230, euro 17,00). «Ho scritto questo libro – racconta Cavallarin – perché sono profondamente legato al ramo materno della famiglia di origine di mia moglie Patrizia, i Sacerdoti, due sorelle (Sara e Cesarina) e due fratelli (Enzo e Vittorio), di antica tradizione ebraica, che hanno attraversato le negrigurie (mi si conceda il termine), ossia le bassezze del Novecento, ognuno a modo suo, sopravvivendo alla persecuzione nazi-fascista, dalle Leggi razziali alla Shoah. Solo un ramo collaterale, i coniugi Bigiavi, ha subito la deportazione e l’annientamento». Marco Cavallarin, studioso di ebraismo e colonialismo italiano, documentarista, collaboratore del Museo Memoria di Sciesopoli Ebraica, della Fondazione CDEC e della Casa della Memoria di Milano, nonché consigliere dell’Associazione Figli della Shoah, ha raccontato in questo libro i Sacerdoti, «anconetani ebrei, attraverso le traversie del Novecento: il fascismo, le leggi antisemite, l’occupazione tedesca, la Shoah. La giovane Sara va in Palestina aderendo al progetto sionista, Enzo entra nella Resistenza, Vittorio fa il medico clandestino al Fatebenefratelli di Roma, Cesarina sfugge agli eccidi nazisti e fascisti del Lago Maggiore. Quattro vite sincrone che narrano, da quattro diversi punti di vista che si intersecano, storie esemplari di italiani ebrei tra dittatura, guerra, persecuzione e fuga. E non mancano l’ironia, il witz, il racconto delle risorse che li hanno aiutati a resistere al dilagare del male. La narrazione si sviluppa con le loro parole integrate dai testi ricavati dalla grande mole di documentazione privata, epistolare e fotografica, passata con amore di generazione in generazione e ritrovata nei cassetti e nei bauli delle case. Sono quindi percorsi di memoria, testimonianze che non hanno la pretesa della completa veridicità storica, ma solo quella di poter essere contributo alla ricerca. E che soprattutto vogliono onorare il ricordo di quattro persone che ci hanno aiutati, con discrezione, a crescere e a formarci. Queste pagine sono destinate a chi vuole conoscere storie inedite di che cosa siano stati il fascismo e il nazismo. Fare memoria significa tramandare non tanto per ricordare i fatti quanto per trarre da essi, e da chi con essi ha avuto a che fare, i valori etici di riferimento». Il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria: aiutare, soccorrere, proteggere sono i verbi che conseguono a ricordare.