di Maria Luisa Moscati Benigni
Il bel danzar, che con virtù s’acquista,
per dar piacer all’anima gentile,
conforta il cuor e fal più signorile,
e porge con dolcezza allegra vista
Con questi versi inizia il trattato De practica seu arte tripudii vulgare opusculum, di Guglielmo ebreo da Pesaro, maestro di danza, un vero e proprio trattato tecnico in cui i principi estetici sono chiaramente espressi: la danza diventa arte e scienza. Vi sono descritte le coreografie di basse danze, gravi e misurate, di balli più briosi e moresche oltre al modo più corretto di eseguire le musiche. Egli stesso è compositore, regista e coreografo. Nel trattato illustra anche coreografie ideate da Domenico da Piacenza che considerò sempre il suo maestro nella teoria e nella pratica del danzare.
Il corpo, che nella tradizione medievale è causa di peccato e quindi oggetto di espiazione, diventa come mezzo di autocontrollo e di manifestazione di gioia al tempo stesso, un modo di elevazione. Come nella tradizione ebraica è parte integrante della stessa: è uno dei linguaggi tra l’uomo e Dio. Innumerevoli nella Bibbia i riferimenti alla danza gioiosa, hagag, e al canto come elemento liturgico che manifesta gioia ( da cui hag, festività solenne). Miriam, sorella di Mosè che esce col timpano e invita le donne a danzare, hol, per festeggiare il passaggio del Mar Rosso o nel primo libro di Samuele quando le donne, per festeggiare la vittoria di re Saul, escono dalle città d’Israele cantando e danzando al suono dei timpani e dei triangoli, o re David che, davanti all’Arca santa, danza in cerchio (mahag), partecipa volteggiando con tutto il suo corpo alla gioia unitamente al suo popolo: esprime così l’uguaglianza degli uomini di fronte al divino. Forse per questo, nel Rinascimento, numerosi sono i maestri di ballo ebrei come Guglielmo.
La nuova Arte entra quindi nelle corti del Quattrocento come elemento indispensabile alla formazione di quel tipo di gentiluomo che Baldassarre Castiglione presenterà poi nel suo Il Cortegiano. Si esige, in linea con l’Umanesimo che mette in rilievo la centralità dell’uomo e della sua opera, un uomo totale, abile nello svolgere i compiti più disparati richiesti dal suo signore, con grazia e naturalezza e soprattutto di buon giudicio per essere pronto a comportarsi con equilibrio e armonia come si conviene in un ambiente aristocratico. E, a giudicare dalla sua presenza richiestissima presso le più prestigiose corti italiane, Guglielmo queste doti le possedeva in pieno.
Nasce, forse, a Pesaro nel 1420, suo padre, Moisè di Sicilia, è maestro di danza alla corte di Alessandro Sforza signore di Pesaro. Il suo vero nome è Beniamino, ma come ha rilevato Umberto Cassuto, negli atti notarili il nome ebraico Beniamino è sempre sostituito con quello di Guglielmo pur non avendo alcuna attinenza né nella pronuncia né nella grafica. Anche suo fratello Ioseph pratica la stessa arte presso la corte di Cosimo dei Medici a Firenze, ma diremmo oggi da libero professionista dato che costituisce, con tale Francesco di Domenico da Venezia, cristiano, anche una società per l’insegnamento della danza e del canto, come risulta da un atto rogato nel 1467 dal notaio Ser Pietro da Vinci, il padre del grande Leonardo. Tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento infatti compaiono spesso società tra cristiani ed ebrei, sia feneratizie che commerciali, in condizioni di assoluta parità economica e rispetto reciproco. Questa pacifica convivenza, che può apparire addirittura idilliaca, si riscontra però soltanto nei rapporti con la classe colta, con i livelli più alti della società, mentre tra il popolino sopravvivono i pregiudizi medioevali debitamente alimentati da certi predicatori e dal basso clero. Si veda in proposito la storia di Simonino da Trento o quella della Predella della Profanazione dell’ostia dipinta da Paolo Uccello, commissionata dalla Confraternita del Corpus Domini di Urbino.
Accanto alla riscoperta dei classici greci e latini voluta dal Petrarca, si diffonde la nuova moda culturale che, a detta del conte Giovanni Pico della Mirandola, fa dell’ebraico, e della qabbalah di cui è appassionato cultore, una delle più importanti chiavi di accesso alla sapienza antica.
Lo stesso papa Leone X istituirà nel 1513 una cattedra di studi ebraici in Vaticano sotto la guida di illustri rabbini ed ha come medico personale Bonet de Lattes (Jacob ben Immanuel Provenzano) prodigo di consigli, non solo in campo medico. Sarà così anche per papa Giulio II e il suo medico Samuel Zarfati e per Paolo III che ebbe come archiatra Jacob Mantino, filosofo e traduttore in latino dei testi di medicina di Averroè e opere di Maimonide. Per non parlare di Gulio III che di medici ebrei ne ebbe tre: Eliezer ha-Cohen, Vitale Aleatino de Pomis e quell’Amato Lusitano alle cui cure affidò persino sua sorella. Con grande scandalo dei Domenicani infine, il cardinale Egidio da Viterbo, umanista e filosofo, approfondisce studi sullo Zohar sotto la guida di Elia Levita.
Guglielmo Ebreo e Federico da Montefeltro a Urbino
In Urbino Federico da Montefeltro non sarà da meno, fa ritrarre tra gli uomini illustri, che arricchiscono il suo Studiolo, Salomone e Mosè ed ha accanto Isaac magnus medicus, nella grande pala d’altare La Comunione degli Apostoli, di Giusto di Gand.
Federico, raffinato bibliofilo, che oggi definiremmo compulsivo, possiede una delle più ricche raccolte di antichi manoscritti tanto che dal saccheggio di Volterra (1472) vuole per sé, come unico bottino di guerra, la preziosa Bibbia miniata e i codici ebraici di Menachem di Aronne. “Naturalmente il grande condottiero l’ebraico non lo sa leggere. Ma ne conosce il prestigio e il valore simbolico…” così scrive lo studioso di ebraismo Giulio Busi nel suo interessante saggio Il Rinascimento parla ebraico uscito di recente.
Il Duca è un uomo pio, religiosissimo, ma è anche un uomo intelligente, nella sua mente aperta non c’è posto per il pregiudizio e il legame con Guglielmo ebreo inizia sin dalla prima giovinezza per durare tutta la vita. Guglielmo ha solo due anni più di Federico, impossibile non pensarli complici divertiti questi due giovani quasi coetanei, mentre eseguono le coreografie preparate per le imminenti nozze di Federico quindicenne con Gentile Brancaleoni, celebrate a Gubbio nel 1437.
Nella sua autobiografia artistica Guglielmo ricorda gli eventi più importanti cui ha partecipato negli anni della sua più che trentennale carriera artistica: sono fidanzamenti e nozze illustri, visite di papi e imperatori, prestazioni nelle corti di Ferrara, Pesaro, Urbino, Milano, Bologna, Mantova e Venezia, solo per citarne alcune tra le più importanti. Sono poche note, ma ci aprono le porte di un mondo fantastico come a Ferrara nel 1444 per le nozze di Leonello d’Este con “la figliola di re Alfonso d’Aragona che un mese durò la corte imbandita e gran giostre e gran balli…”. Lo stesso anno è a Camerino per le nozze del signore di Pesaro con Costanza da Varano, è felice di incontrarvi Federico, conte di Urbino, ma “un fameglio” sbagliò nel servire e lo sposo ordinò che fosse impiccato e si salvò grazie alla “benedecta anima di madonna Costanza che non volse …”.
Tre anni dopo organizza grandi festeggiamenti per la visita di Francesco e Bianca Maria, signori di Milano, agli Sforza di Pesaro. È a Ravenna quando giunge la notizia della vittoria del signore di Milano sui veneziani a Caravaggio e “per forza me convenne andare a danzare” commenta. Sempre nello stesso anno è a Pesaro per le nozze di Alessandro Sforza con Sveva di Guidantonio da Montefeltro. Grandiosi saranno i festeggiamenti nel 1450 “quando el duca Francesco fece l’entrata a Milano e fo facto duca e durò un mese le giostre e lo danzare e le feste grande, furono fatti duecento cavalieri” e furono messe a tavola “diece milia persone… a un suono de trombecta e tutti erano nella corte”. E ancora a Milano nel 1459, in occasione della visita di papa Pio II fu fatto “grandissimo honore accompagnato danzando con tucta la corte e stette tre dì. El primo se mise un mantellino che fo stimato sessanta milia ducati et era tucto coperto de perle e de gioie. El secondo dì mise una catena d’oro con una grande gioia che valeva un tesoro. El terzo dì se vestì a la italiana e misese tucti li panni del duca Francesco indosso”. Evidentemente questo era un grande onore per il padrone di casa.
Si trovò a Faenza per le nozze di Carlo Manfredi con Costanza di Rodolfo da Varano, la sposa giunse a cavallo e il signore le andò incontro accompagnato dai cittadini e da cortigiane vestite “de velluto e de panno d’argento e qui fu facto un bel danzare e foro facte de belle moresche”. A conclusione della festa un funambolo salì “su una corda altissima e cascò giù e crepò e morì de bocto”.
Pur conservando stretti rapporti con le corti di Pesaro e di Urbino Guglielmo è molto attratto da quelle delle città del Nord ed è forse proprio a Milano che nel 1463 diventa cristiano. È la duchessa Bianca Maria a fargli da madrina, il suo nuovo nome di battesimo è ora Giovanni Ambrogio. Alcuni storici ipotizzano che tale conversione fosse stata necessaria per poter essere nominato Cavaliere dello Speron d’Oro, ma così non è dal momento che lo stesso titolo viene conferito anche al rabbino Yeuda ben Yachia, che resta tale. Forse Guglielmo/Giovanni Ambrogio volle, come tanti a quell’epoca, sollevare i signori di Milano dagli immancabili fastidi da parte di alcuni Papi che poco gradivano la presenza di ebrei presso le corti.
Ed è a Venezia che viene chiamato per preparare i festeggiamenti per l’arrivo dell’Imperatore Federico III , le feste più ricche che avesse mai visto in tutta la sua vita e racconta di sfilate di “galei, palischelmi, bucintori coperti tucti de panni de razo … ed io ordinai una degnissima liverea de mascare con balli novi e in quella sera io fui facto cavaliere … e non fo mai facta più bella festa e più bella collaccione”. Ma nessuna festa può eguagliare quelle della corte di Napoli per la fantasia e la ricchezza delle decorazioni: nei piatti son serviti castelli, animali, fiori a volte di zucchero a volte d’argento, ma le colaccioni si mangiavano a metà perché “l’avanzo era messo a saccomanno, cussì è l’usanza del paese”.
In occasione dell’arrivo a Napoli dell’ambasciatore del duca di Borgogna, Guglielmo è a Napoli e organizza “l’onore grande che fece la maistà del signore re all’ambassiadore …. Dopo che tucti i signori del reame gli fecero un pasto per uno” fu la volta del re e di suo figlio il duca di Calabria, la sera del “martedì di carnevale comenciò alle doi de nocte et durò infino a la mattina a l’avemaria e per ogne vivanda che venia tucti li piactelli erano coperti con castelli de argento … io remaneva stuppefacto … ora venia una vivanda de pesscie ora venia una vivanda de carne et insalate cioè geladine rosse et geladine verde… e quando fo in sulla mezza nocte per entrare nella Quaresima fo privata tucta la carne et venne de molti pesscie grossi facti in molti modi. Longo seria lo scrivere se io acontasse ogne cosa”.
Particolarmente scenografica l’entrata del Duca di Calabria con il seguito di “mascare vestite alla francese cioè di panno d’oro fino orlato di ermellino ed una manica era di damaschino longa quase fino a terra arecamata e lì foro facti balli francesi con madonna duchessa et madonna Lionora …”. Si attarda a descrivere anche la battuta di caccia fatta nell’occasione anche se non ebbe parte alcuna nell’organizzazione dell’evento, ma è colpito dalla partecipazione dell’intera popolazione napoletana, dalla presenza di cinquemila cacciatori che quando “erano straque de amazzare tante bestie” si vide che “foro morti cento dieci porci e nove cervie grandissime e tre grossi lupi e doi caprioli. Et la mattina fu messa tutta la caccia suso cento vinte tre muli con fiori e erbe e andaro per tucto Napole con tucti li cani e tucti li cacciadori sonando li corni …”. A Napoli alla corte del re Alfonso d’Aragona dovrà restare due anni per insegnare la nuova arte alle principesse Beatrice e Eleonora e a tutte le dame che vivevano a corte.
A Guglielmo piacevano le ricche colazioni che, interrotte di tanto in tanto per le danze, iniziavano al mattino e duravano sino a notte inoltrata e ne descrive di grandiose per le seconde nozze di Federico da Montefeltro con Battista Sforza, poi, anni più tardi quelle in occasione delle nozze di Elisabetta, loro figlia, ma dopo le abbondanti libagioni dovrà restate “octo dì amalato in lecto”.
Ormai Giovanni Ambrogio risiede stabilmente presso la corte urbinate. Con il nuovo nome dedica nel 1474 a Federico, diventato Duca, copia del suo trattato, arricchito di nuove danze rispetto a quello che nel 1463 aveva dedicato a Galeazzo, figlio di Francesco Sforza. Il bibliotecario Agapito, attento custode della famosa biblioteca ducale, lo descrive “in serico viridi cum seraturis argenteis”; peccato sia andato perduto durante le ruberie del duca Valentino quando nel 1502 occupò Urbino.
Beniamino/Guglielmo/ Giovanni Ambrogio finirà i suoi giorni in Urbino forse accanto a suo figlio Pierpaolo: entrambi figurano come famigli del Duca di Urbino con la qualifica di “ballarini”. Baldassarre Castiglione ironizza sui leziosi saltelli del giovane maestro, è evidente che per l’Ars tripudii, così come è illustrata nel famoso trattato, nel Rinascimento la moda sta cambiando.