Heimat, quella piccola patria così indifferente, così collaborazionista

Personaggi e Storie

di Marina Gersony

ALTO ADIGE: quando la patria uccide. Gli ebrei  di Merano, dai fasti di inizio secolo alle deportazioni.  Un J’accuse che non fa sconti

Si commuove Cesare Finzi, già primario cardiologo nato a Ferrara nel 1930. Con voce rotta ricorda il padre commerciante, la famiglia integrata («L’unica differenza era che io anziché andare in chiesa andavo in sinagoga»); Finzi ricorda il giorno in cui l’Italia entrò in guerra e «noi ebrei non potevamo più frequentare la scuola pubblica». E ricorda di come sia riuscito a sfuggire con alcuni parenti ai rastrellamenti nazisti grazie alla solidarietà di alcune famiglie o di singoli cittadini. Soprattutto non dimentica il tragico destino degli zii e dei cugini di Bolzano tra l’autunno del ‘43 e la primavera del ‘44, tra cui Germana Carpi, sedicenne, e la sorellina Olimpia, deportata e uccisa ad Auschwitz: «Non aveva nemmeno quattro anni questa grande nemica del Terzo Reich». Da anni questo lodevole medico è impegnato a incontrare gli studenti nelle scuole per combattere i fanatismi.
Serata ricca di emozioni quella che si è svolta lo scorso aprile presso la Libreria Claudiana di Milano, in cui i ricercatori Sabine Mayr e Joachim Innerhofer hanno presentato la versione italiana del libro Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige, edizione aggiornata e ampliata rispetto a quella in lingua tedesca uscita nel 2015 (Editore Raetia, pp. 472, euro 24,90). Corredato da oltre 380 foto, il volume è un viaggio inedito nella Memoria e nella Storia della regione altoatesina, una regione che grazie all’ingegno e al talento di molti ebrei cosmopoliti e illuminati che vi soggiornavano, beneficiò del loro contributo nel campo della medicina, delle infrastrutture, del turismo, del giornalismo, della vita sociale e culturale. Una storia che merita di essere conosciuta.

Le prime presenze ebraiche di un certo rilievo a Merano risalgono alla metà del XIX secolo e la prima sinagoga è stata edificata nel 1901. L’eredità ebraica era legata a nomi altisonanti come Sigmund Freud, Stefan Zweig, Franz Kafka e nomi come Rothschild e Weizman. Si deve inoltre al genio ebraico la realizzazione della funicolare della Mendola, le linee ferroviarie locali, la creazione di un sanatorio per ebrei poveri e la scoperta del potere curativo dell’acqua meranese. Senza contare coloro che hanno influenzato lo Zeitgeist dell’epoca, tra cui il Rabbino Aron Tänzer di Bratislava, i medici Raphael Hausmann di Breslavia e Alfred Lustig dell’Ungheria; il filosofo Moritz Lazarus, i banchieri Ernst e Arnold Schwarz, Friedrich Stransky, i fratelli Biedermann… E ancora imprenditori, commercianti, ristoratori, albergatori, scienziati, intellettuali, artisti, gente comune. Mentre l’antisemitismo lievitava nella vicina Vienna e presso il clero tirolese, gli ebrei meranesi continuavano a essere attivi, convinti del liberalismo democratico e della necessità di sostenere l’amata Heimat per la quale valeva la pena lottare.
Con rigore storico e grazie al supporto di fotografie, ricordi e testimonianze, Sabine Mayr e Joachim Innerhofer hanno setacciato gli archivi locali, nazionali e internazionali ricostruendo le vite di molte famiglie che nei tempi bui hanno subito l’odio cristiano, i pregiudizi, la diffamazione e la confisca delle loro proprietà di cui buona parte fu venduta a prezzi irrisori dopo il 1938 e mai restituita. Una vicenda che si chiude con centocinquanta vittime uccise nei Lager nazisti.

Quando la patria uccide è anche un j’accuse sulla responsabilità della Chiesa, dei giornali clericali antisemiti e di quelle istituzioni che, rispetto ad altre province italiane, non hanno affatto aiutato gli ebrei, rendendosi di fatto, per parafrasare lo scrittore Daniel Goldhagen, dei volonterosi carnefici di Hitler: SS, Gestapo, Südtiroler Ordnungsdienst, potevano infatti contare sull’attiva collaborazione della popolazione locale. «Fare chiarezza e dare un nome ai colpevoli è un processo doveroso e urgente dal momento che i testimoni sono morti da tempo e i più giovani tra qualche anno non saranno più in grado di parlare», non si stancano di ripetere gli autori.

«La stesura del libro è stata resa possibile solo grazie alla cooperazione delle famiglie ebraiche e alle quindici testimonianze dirette – osserva Sabine Mayr con gratitudine –. Ma anche alle numerose testimonianze di discendenti vittime della Shoah e di sopravvissuti, persone che oggi sono sparse ovunque nel mondo. Senza dimenticare le ricerche fondamentali di Liliana Picciotto». Ribadisce a sua volta il co-autore Joachim Innerhofer, direttore del Museo ebraico di Merano: «Gli ebrei venivano a Merano in vacanza, per motivi di salute, per sfuggire all’antisemitismo dei Paesi dell’Est, attirati dal clima, dalla cultura italiana. Erano il lievito e la forza propulsiva di questa regione».

Difficile sintetizzare in poche righe le vicende drammatiche narrate dai testimoni durante la presentazione del libro. Maurizio Goetz, docente presso l’Università di Milano Bicocca e consulente di innovazione turistica, ha raccontato di come suo padre fosse stato denunciato da un compagno di classe e salvato da un altro compagno. I suoi nonni furono deportati. «La responsabilità è un fatto individuale – ha dichiarato –. Il libro parla di un filo rosso che si è spezzato. In questa città è accaduto quello che ha descritto Hugo Bettauer ne La città senza ebrei. La comunità di Merano che contava 1200 ebrei nel 1938, oggi ne conta 39 che stanno lavorando attivamente con il Museo ebraico, tengono vive le tradizioni, svolgono le funzioni e le iniziative culturali. Oggi è nostra intenzione ristabilire quel filo rosso che mio nonno e mio padre hanno riannodato. Mi piacerebbe che l’Olocausto non fosse solo una rievocazione, bensì anche un punto di partenza per costruire una nuova cultura».

A sua volta Franca Avataneo ha parlato di suo nonno, Aldo Castelletti, commerciante che aveva ricoperto incarichi pubblici e combattuto con onore nella prima Guerra Mondiale. «Mio nonno nacque a Mantova nel 1891 in una famiglia che non era di stretta osservanza religiosa, ma rispettava le principali festività e ricorrenze ebraiche. Si stabilì a Bolzano con sua moglie nel 1933 e l’anno successivo divenne socio della neofondata ditta Mondial Fonofilm, Dischi, Edizioni Musicali. Con le Leggi razziali del 1938 dovette abbandonare l’attività e le figlie furono battezzate nel vano tentativo di sfuggire alla persecuzione, non poterono più frequentare le rispettive scuole. Per mia madre fu un dramma: non si seppe mai spiegare l’indifferenza delle compagne di classe che fino al giorno prima avevano condiviso con lei studio e divertimento. Mio nonno fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Merano con la famiglia per alcuni giorni. Mia madre e mia zia riuscirono a scappare in Svizzera nella primavera del 1944. Di Aldo Castelletti non si seppe più nulla. Neppure i meriti acquisiti durante la Prima Guerra Mondiale hanno potuto salvarlo».

Aziadè e Alfonso Gabay sulla porta di casa a Merano

Non è riuscita a partecipare alla presentazione Aziadè Gabay che ha portato i suoi saluti lasciando alla figlia Lydia Cevidalli il compito di portare la sua testimonianza, per altro raccolta nel libro Mille e una notte a Merano. Lydia Cevidalli, nota violinista e musicista, ripercorre così la storia della sua famiglia e di sua madre. Un’epopea che risale a tempi lontani per arrivare ai giorni nostri, dove compaiono personaggi come Isabella di Castiglia e Cristoforo Colombo, i turchi di Costantinopoli, Frank Kafka, Italo Balbo, Licio Gelli, Elio Toaff e non solo. Figlia di Marianne Strakosch e del mercante d’antiquariato e di tappeti Suleiman Gabay, la bellissima Aziadè nacque a Merano nel 1924. «Il nonno di mia madre era un importante uomo d’affari a Merano e Cortina d’Ampezzo negli anni 1920 e 1930. Si era trasferito da Istanbul a Monaco di Baviera all’inizio del secolo e da Monaco a Merano nel 1920». Con l’introduzione delle Leggi razziali, il mondo intero crollò per la famiglia Gabay. «Nel 1939 mia madre e la sua famiglia dovettero fuggire da Merano e svendere la villa di famiglia. Alfonso, il fratello pieno di talento di mia madre, non riuscì a sopportare la continua necessità di nascondersi, fu così che decise di mettere la parola fine alla sua giovane vita. Fu un grande trauma per mia madre da cui non si è mai ripresa». La famiglia Gabay ha messo a disposizione delle foto straordinarie che documentano quel periodo storico: una fra tutte il carro del ballo Mille e una notte organizzato da Suleiman Gabay nel Kurhaus di Merano nel marzo del 1932. Per la copertina del libro Quando la patria uccide, gli autori hanno scelto uno scatto in cui si vedono Suleiman con i figli Aziadè e Alfonso in un attimo fuggente, forse felice. A Vienna, lo scorso 3 maggio, è stato posato uno Stolperstein, una pietra d’inciampo, per Flora Strakosch, nata Redlich, bisnonna di Lydia Cevidalli, deportata da Vienna il 13 agosto 1942 all’età di 77 anni nel campo di concentramento di Theresienstadt. Morì il 12 aprile 1944.
Infine, ha parlato Martin Langer, anestesista-rianimatore, ex professore all’Università degli Studi di Milano. Martin è figlio del medico Artur Langer e nipote del commerciante Alexander Langer, nato nel 1867 a Olomuc nell’odierna Repubblica Ceca e trasferito a Bolzano intorno al 1916. Quando entrarono in vigore le Leggi razziali, Artur e suo fratello, l’avvocato Erwin Langer, avevano da poco iniziato la loro carriera professionale, interrotta a causa della persecuzione razziale. «Dopo la guerra mio padre è ritornato a Vipiteno per ricostruirsi una nuova vita. Per il resto ha sempre evitato di parlare di quanto era successo. Soltanto più tardi abbiamo iniziato a capire qualcosa». Martin Langer racconta di come, grazie al libro di Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, abbia appreso la storia della sua famiglia. «È un libro importante – conclude –. Lo dovrebbero leggere tutti. Per capire e sapere».