«I miei 14 anni, dalle celle di San Vittore al lager di Bolzano»

Personaggi e Storie

di Marina Gersony

Essere adolescenti nel 1938. La fuga, la cattura, la tortura dei fascisti… A 89 anni, Luciano Modigliani rievoca il clima di delazione e violenza, la sua deportazione a Bolzano, vero campo di sterminio su cui fu steso un velo di omertà e insabbiamento, a partire dalla ferocia del Comandante Franz. «Andrò dal Presidente Mattarella, l’Italia ha avuto
un altro lager della morte e nessuno ne sa nulla…»

«Mi hanno portato a San Vittore e mi hanno fatto scendere in uno scantinato per interrogarmi. Erano in tre, un comandante delle SS, un brigadiere dell’esercito tedesco e un fascista italiano, probabilmente un delatore. Mi hanno intimato a parlare, volevano che rivelassi dove si trovavano i miei fratelli maggiori che si erano uniti ai partigiani. Ma io non lo sapevo, non ne avevo la più pallida idea. A un certo punto uno di loro mi ha afferrato gli indici e li ha spezzati. Poi mi hanno gettato per terra e un altro ha iniziato a calpestarmi e a camminare sul mio corpo. “Parla, parla”, gridava. Improvvisamente ho avuto un’intuizione, è stato il Dio di Israele a darmi la forza di rispondere. Ho avuto la prontezza di dire che anche se anche avessi affermato la verità non mi avrebbero creduto. A quel punto mi hanno lasciato andare e mi hanno rinchiuso in una cella del quinto raggio. Le dita penzolavano e provavo un dolore senza nome. Porto ancora i segni di quelle torture. Avevo 14 anni e mezzo. Fino a quel momento avevo vissuto come un principino, ultimogenito di dieci figli. Con le Leggi razziali tutto cambiò».
Luciano Modigliani è nato a Siena nel 1929, figlio di Germano Modigliani, italiano, e di Emma Misul, di origine spagnola. Ricorda ogni dettaglio come se fosse oggi. «La mia era una famiglia toscana di religione ebraica – racconta -. Amedeo Modigliani, il pittore, era nostro cugino. Oggi della mia famiglia di origine non è rimasto più nessuno. L’unico sopravvissuto sono io». Elegante, curato nell’aspetto, sembra molto più giovane rispetto all’età anagrafica. Occhi vivaci, tono affabile, accompagna ogni parola da gesti garbati, disposto a raccontare ancora una volta le atrocità vissute in un periodo storico di oscura memoria. Sì, perché dopo quarant’anni di silenzio, in cui non aveva mai voluto parlare del suo passato («Nessuno mi avrebbe creduto»), da qualche anno ha deciso di andare nelle scuole a raccontare: «Lo sento come un dovere, il tempo che mi resta lo dedico a diffondere quello che è accaduto, non solo a me e a quelli che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, bensì a tutti quei sei milioni di fratelli uccisi nella Shoah. Le nuove generazioni devono sapere. Se non lo faccio io, chi lo farà? Dopo di me, chi parlerà?». Per questo suo encomiabile impegno, Modigliani è stato insignito della cittadinanza benemerita di Brugherio, dove vive attualmente.

Nel corso dell’intervista ha raccontato la storia della sua famiglia, di come suo padre, uomo di sani principi e grande lavoratore, sia sempre stato rispettato da tutti, anche dagli stessi fascisti. «Quando al mattino presto andava a lavorare incontrava le squadracce – spiega – che, vedendo in lui un onesto lavoratore al servizio di una numerosa famiglia, lo salutavano con gentilezza».
Tuttavia, i tempi erano quelli che erano, e per gli ebrei tirava un’aria brutta. La paura era diffusa e sempre in agguato. «Già poco prima dell’emanazione delle Leggi razziali nella scuola che frequentavo a Milano, dove ci eravamo trasferiti, alcuni ragazzi cominciavano a burlarsi dei compagni ebrei – racconta -. E ricordo quanto questo mi facesse male …». Dopo la promulgazione delle norme antiebraiche suo padre decise di lasciare la città: prima andarono a Fiorenzuola, poi a Salsomaggiore e, infine, a Cabiate, in provincia di Como. Come sfollati in fuga dai bombardamenti, i Modigliani cercavano di stringere rapporti cordiali con gli abitanti di tutte le località in cui si trasferivano, senza però mai rivelare la propria identità ebraica. Tutto questo fino al 1944. «Non dimenticherò mai quel 23 dicembre del ‘44 in cui sono andato con i miei a Milano per salutare alcuni parenti – racconta commosso -. Quella mattina faceva molto freddo e nostro padre ci raccomandò di andare a ripararci al Cristal Bar, all’angolo con via Boscovich. Dopo qualche minuto entrò un Capitano della Squadra d’azione Muti. Conosceva mio padre e sapeva delle nostre origini ebraiche, ma non gli aveva mai detto nulla in proposito. Quel giorno, invece, lo apostrofò con tono aspro, molto diverso dal solito: “Ma tu cosa ci fai qui? Stai proteggendo per caso degli antifascisti, dei partigiani e degli ebrei?”. Poi prese il fischietto e di corsa arrivarono i suoi soldati. Ci condussero prima in piazza Lima e poi verso San Vittore. Durante il tragitto mia madre mi esortò a scappare adottando una sua tipica espressione portoghese che equivale all’italiano di “Vai, vai”. Mi sussurrò l’indirizzo di una cugina, Floretta Coen, che stava in via Canaletto: “Vai da lei – mi incitò -, vai, vai”. Di colpo mi ritrovai solo, spaesato e confuso. Ricordo che presi un tram e arrivai da Floretta che mi accolse a braccia aperte nel suo appartamento. C’erano nascosti altri ebrei e non ebrei. Dopo una decina di giorni, in seguito alla delazione di un condomino che denunciò la nostra presenza in cambio di soldi, fummo prelevati dalle SS e dai fascisti che ci portarono a San Vittore. Lì mi hanno riconosciuto, interrogato, torturato e buttato in una cella del quinto raggio come ho raccontato all’inizio».

Troppa omertà sul campo di Bolzano

Luciano Modigliani si ferma un attimo, sembra soppesare ogni parola. Il mondo deve sapere. Prende fiato e procede. «Dopo una decina di giorni, una mattina all’alba, ci hanno fatto vestire in fretta e furia e ci hanno portati in Stazione Centrale, al Binario 21. Eravamo una settantina di persone, tutte destinate alla deportazione. Ci hanno stipati in un carro bestiame dove siamo rimasti rinchiusi per tre giorni senza mangiare. L’aria era irrespirabile. Avevamo bisogno di espletare i nostri bisogni fisiologici, lo spazio vitale era ridotto al minimo, qualcuno non ce l’ha fatta a resistere ed è morto. Non so come ho fatto, ma sono riuscito a trascinarmi verso un finestrino, ho respirato un po’ d’aria e sono ritornato a vivere. A un certo punto ci hanno portato del cibo, una brodaglia disgustosa che galleggiava in un enorme catino. Infine siamo arrivati nel campo di sterminio di Bolzano. Sì, un campo di sterminio, questo era Bolzano e ancora oggi non viene definito nel modo giusto. Ho deciso che scriverò una lettera al Presidente Mattarella perché questa cosa venga chiarita e si sappia che lì, in quella città, c’era un lager».

È indignato Luciano Modigliani: perché sul campo di Bolzano c’è stata troppa omertà. Tutta la documentazione, compresi gli elenchi degli internati, è stata distrutta dal comando nazista poco prima della liberazione. Inizialmente il Polizei und Durchgangslager Bozen era stato concepito come campo di transito nazista. Fu attivo dall’estate del 1944 alla fine del secondo conflitto mondiale. Raccoglieva prigionieri civili politici e razziali – e in misura minore prigionieri militari – smistati per essere dirottati ad Auschwitz, Mauthausen, Dachau e Flossenbürg. «Dopo i bombardamenti americani del Brennero, che avevano interrotto i collegamenti ferroviari con la Germania – osserva Modigliani -, il campo fu trasformato in un vero e proprio campo di sterminio. Ci hanno rasati, ci hanno dato una divisa di iuta e un numero di matricola. Lavoravamo ininterrottamente con turni massacranti dalle sei di mattina alle sei di sera con venti gradi sottozero. Una povera anziana è stata innaffiata con dell’acqua e lasciata mezza nuda a morire al gelo fino a quando si è trasformata in una statua di ghiaccio. Il cibo era scarso e rivoltante. Ricordo il comandante Franz, sempre in giro con il suo cane lupo. Per farci capire che era lui a comandare aveva fatto appendere un prigioniero a un albero a testa in giù. Un monito per noi prigionieri. Per non parlare delle punizioni frequenti, le violenze e le angherie. Noi ebrei eravamo considerati meno dei topi e degli scarafaggi, dormivamo accatastati sopra delle cuccette, una sopra l’altra, l’igiene era precaria, le coperte puzzavano, avevamo i pidocchi che ci corrodevano la carne».

Il campo fu liberato alla fine dell’aprile 1945: a partire dal 29 aprile e fino al 3 maggio gli internati cominciarono ad essere rilasciati. Modigliani si salvò insieme ai suoi genitori: «Gli americani arrivarono insieme al Comité International del la Croix-Rouge de Genève il 28 aprile 1945. Ci hanno portati a Merano in un castello per curarci, riaprire lo stomaco atrofizzato e riabituarci a mangiare. Io ero entrato nel campo che pesavo 59 chili e ne sono uscito che ne pesavo 29. In seguito ho saputo che tre dei miei famigliari erano morti a Dachau e altri tre a Mauthausen. Mia cugina Luisa Millul, una bellissima cantante di 23 anni, è stata costretta a cantare per settimane in prossimità dei forni crematori. Due mesi dopo l’hanno gasata ad Auschwitz. Vuole sapere perché mi sono salvato? Non lo so. O forse sì. Probabilmente per un senso di sopravvivenza, ma soprattutto grazie all’aiuto di Dio. Sono stato fortunato. Molto fortunato».
La voce di Luciano Modigliani si incrina. Nonostante abbia raccontato questa storia infinite volte, si commuove ogni volta. Gli occhi si riempiono di lacrime e abbassa il capo. Durante l’intervista non ha mai espresso una sola parola di odio e di rancore verso i suoi aguzzini. Gli rimane solo un cruccio, un pensiero fisso che lo addolora. «Se non ci fossero stati italiani che denunciavano noi ebrei, mettendo in pericolo la nostra vita, i nazisti non avrebbero mai saputo dove trovarci. E non avremmo vissuto e visto tanto orrore».