di Nathan Greppi
Ritorno nella Lettonia ebraica (seconda parte): un reportage.
Nella natura incontaminata della Lettonia rurale si scoprono tragiche tracce del passato: nella Foresta di Rumbula, dove 25.000 ebrei vennero fucilati e seppelliti in fosse comuni, le pietre ricalcano la mappa del ghetto di Riga. Ma c’è anche la celebrazione della vita, sulla costa baltica: a Liepaja nacque lo stemma ufficiale dello Stato di Israele
Uscendo da Riga e superati i campi agricoli, dopo circa 15 chilometri ci si immerge tra i numerosi boschi che dipingono di verde il paesaggio della Lettonia profonda. Ma in mezzo a tanta bellezza nella natura, si annidano storie tragiche: una di queste riguarda la Foresta di Rumbula, dove 25.000 ebrei vennero fucilati e seppelliti in fosse comuni.
Inoltrandosi tra i pini e le betulle, si giunge di fronte a un ampio spiazzo: qui, sorge un monumento a forma d’albero in memoria delle vittime, circondato da numerose lapidi che riportano i cognomi delle vittime accertate. Anche qui, come a Riga, riconosciamo i cognomi della nostra famiglia, incisi sulle pietre; li osserviamo senza dire nulla, mentre il luogo stesso è immerso nel silenzio più totale.
La disposizione delle lapidi non è casuale; essa, infatti, ricalca la mappa del Ghetto di Riga. Intorno al monumento, si trovano tre enormi massi posti sopra delle distese erbose sopraelevate, dove vennero scavate le fosse comuni.
In mezzo a tante tragiche testimonianze, alcune spiccano in particolare per il loro significato; ad esempio, vi è una stele di pietra in ricordo dei caduti, eretta nel 1964 da membri della Comunità Ebraica di Riga. Si tratta dell’unico monumento alle vittime della Shoah eretto in territorio sovietico ai tempi del regime comunista. Per poterlo erigere, si dovette omettere il fatto che lì c’era stato un massacro di ebrei, limitandosi a dichiarare genericamente che vi si era consumato un eccidio nazista.
Se a Rumbula il nostro viaggio ha rispolverato un passato doloroso e pieno di morte, recandoci invece nella località balneare di Jurmala abbiamo scoperto un presente gioioso e pieno di vita; qui, abbiamo tenuto una rimpatriata con numerosi parenti del ramo lettone, che oggi vivono in paesi diversi e dei quali fino a quel momento ignoravo l’esistenza.
Liepaja, nel segno della menorah
A molti il nome di questa piccola cittadina affacciata sul Mar Baltico potrà non dire nulla, ma Liepaja ha giocato un ruolo peculiare nella storia del popolo ebraico: infatti, i disegnatori ebrei che realizzarono lo stemma ufficiale dello Stato d’Israele con l’immagine della menorah, i fratelli Gabriel e Maxim Shamir, provenivano proprio da questa città, dove nacque anche la mia nonna materna. Ed è proprio la forma della menorah che viene ricalcata dai muretti del memoriale presente a Liepaja; collocata appena prima della spiaggia, la struttura si trova di fronte alle Dune di Šķēde, dove tra il 1941 e il 1945 furono uccisi più di 3.600 ebrei. Incastrato tra il verde dei boschi e l’ocra della sabbia delle dune, il luogo è immerso in un profondo silenzio, interrotto unicamente dal suono del vento. Quasi tutti gli uomini ebrei invece furono uccisi tra l’estate e l’autunno del 1941 vicino al faro, spinti brutalmente dai nazisti in trincee scavate nella sabbia prima di essere trucidati.
Scendendo sulla battigia osserviamo attoniti il faro, dove il nonno materno di mia madre trovò la morte, pochi giorni dopo essere riuscito a mettere in salvo la moglie e i due figli caricandoli sull’ultimo treno diretto in Asia Centrale. In famiglia nessuno è mai riuscito a spiegare perché non salì anche lui su quel treno: forse, essendo proprietario di un caseificio in città, doveva sistemare gli ultimi affari, ma quel ritardo purtroppo gli fu fatale. Rifugiatasi per tutto il resto della guerra, mia nonna a soli 10 anni dovette iniziare a lavorare duramente per aiutare il fratello e la madre, che nel ‘44 morì a causa delle condizioni di vita precarie, lasciandoli orfani.
In questa città, la portata dello sterminio degli ebrei si fa sentire ancora oggi; se prima della guerra vivevano poco più di 7.000 ebrei a Liepaja, alla fine della guerra ne erano rimasti appena 27, mentre oggi se ne contano circa 75. «A Liepaja non c’erano vie o quartieri ebraici prima della Seconda Guerra Mondiale, perché gli ebrei vivevano mescolati tra gli altri, in un clima di reciproco rispetto tra vicini -, ci racconta Ilana Ivanova-Zivcon, direttrice della Liepaja Jewish Heritage Foundation -. Qui tutti si sentivano uniti dall’appartenenza allo stesso luogo di nascita, senza distinzioni etniche o religiose». Gli ebrei erano assai radicati nella società. Possedevano il loro tennis club, il loro yacht club, la sezione locale del Maccabi, diverse organizzazioni giovanili ed enti filantropici.
Entrando invece nella sede della comunità ebraica locale, passato e presente si incontrano fin da subito; appena oltre l’ingresso, al fianco delle targhe in memoria di ebrei uccisi nella Shoah, troviamo foto recenti della vita comunitaria degli ebrei di Liepaja oggi. Oltre ad una grande sala per gli eventi, troviamo un Beit Midrash, un’aula studio per i bambini ebrei che vengono qui a studiare e a leggere la Torà di Shabbat. Essendo troppo piccola, la comunità non possiede una sinagoga, né un rabbino; quando vengono organizzate cerimonie (matrimoni, Bar Mitzvah, ecc.), si tengono qui.
Come a Riga, anche a Liepaja è presente una piccola mostra nei locali della comunità ebraica, che ne racconta la storia; si vedono le foto sia dei Giusti che di coloro che furono salvati, nonché foto della vita ebraica in Lettonia nella prima fase in cui ottenne l’indipendenza dalla Russia, dal 1917 al 1940. Sono inoltre presenti delle foto della strage compiuta sulle Dune di Šķēde; scattate da un ufficiale nazista, vennero recuperate di nascosto e a rischio della propria vita e di quelle della propria famiglia da David Zivcon, un ebreo scampato alla Shoah. Le dodici fotografie dello sterminio degli ebrei di Liepaja, perlopiù donne, bambini e anziani, vennero portate come prove ai Processi di Norimberga.
«Per preservare l’eredità ebraica di questa città abbiamo creato una nostra ricorrenza: la Riunione degli ebrei di Liepāja/Libau” – spiega Ilana Ivanova, che con “Libau” si riferisce al nome tedesco della città -. I sopravvissuti e i loro discendenti partecipano a questi raduni dal 1992. Quando organizziamo un incontro, scegliamo sempre un tema; nel 2022 è stato dedicato ai Giusti gentili e a coloro che hanno rischiato la vita per salvare gli ebrei di Liepāja e dintorni. Il motto della Reunion 2024 era “I semi dei Giusti sono cresciuti in un albero della vita”. Per noi significa che quelle quattro generazioni di sopravvissuti di Liepaja, che hanno partecipato alla Riunione, hanno potuto riunirsi grazie alle persone che hanno salvato gli ebrei durante la Shoah».
Daugavpils, città di confine
Passando di fronte all’edificio, che nel 1840 nacque come una sinagoga e oggi è un centro sociale, Iosif Rochko, direttore del Centro di Storia Ebraica di Daugavpils, ci racconta una storia divertente; nello stesso anno in cui venne inaugurata, un uomo entrò con una capra, facendo baccano e interrompendo gli ebrei che vi pregavano. Questi, infuriati, lo cacciarono via per poi andare a denunciarlo dallo zar, che per punizione spedì l’uomo in Siberia. Quando, tempo dopo e dopo aver scontato la sua pena, l’uomo tornò, rientrò nella sinagoga urlando “Che avete fatto alla mia capra?”. Gli ebrei tornarono dallo zar, che fece deportare nuovamente l’uomo, e stavolta non fece più ritorno.
Questa è solo una delle tante storie legate alla presenza ebraica a Daugavpils, seconda città della Lettonia per numero di abitanti dopo Riga e a breve distanza dai confini con la Lituania e la Bielorussia. Pochi luoghi rendono meglio di questo l’idea di cos’era una volta l’ebraismo nell’Europa orientale e cos’è adesso; se nel 1935 gli ebrei di Daugavpils erano più di 11.000, costituendo il 25% circa di tutta la popolazione, oggi ne sono rimasti appena 70. Qui è dove è nato e cresciuto il mio nonno materno, finché non venne deportato in Siberia assieme alla maggior parte della sua famiglia e ad altre migliaia di ebrei per volere di Stalin, il quale cercò senza successo di falcidiare la borghesia ebraica lettone.
Entrando nel cortile interno dell’unica sinagoga ancora attiva, vicino all’ingresso troviamo una Sukkà in legno adibita per quando si tiene Sukkot; mentre sul retro, molta legna è stipata e accatastata dove in passato vi era uno spazio utilizzato da un macellaio kasher, dal quale gli ebrei del posto portavano le loro galline per la macellazione rituale. «A causa della crescente puzza di sangue – racconta Rochko – ad un certo punto i vicini si lamentarono, e venne l’ispettrice sanitaria. Il macellaio riuscì a corromperla con una gallina ogni volta che veniva per l’ispezione, e andò avanti così fino agli anni ’90, quando la donna morì. A quel punto, lo spazio per la macellazione kasher venne chiuso».
La sinagoga restaurata grazie alla famiglia di Mark Rothko
Costruita in origine nel 1850, la sinagoga è stata ristrutturata nel 2005 grazie a ingenti donazioni provenienti dalla famiglia in America dell’artista Mark Rothko, ebreo originario di Daugavpils. Tuttavia, «in tutta Daugavpils non c’è più un rabbino dal 1964 – spiega Iosif Rochko -. Preghiamo per conto nostro ogni sabato sera in ebraico, dopodiché mangiamo insieme nella sala da pranzo».
All’interno della sinagoga, notiamo una parete in legno per separare gli uomini dalle donne, che è stata messa «dopo che un ebreo ortodosso giunto in visita da Israele si lamentò dicendo che le donne dall’altro lato della sala lo distraevano; per fortuna non l’abbiamo mai più rivisto». Mentre dove prima c’era il matroneo al piano superiore, oggi si trova un piccolo museo, dove si possono vedere foto, libri e documenti che raccontano la storia di questa vibrante comunità ebraica. Ai lati dell’Aron HaKodesh, si trovano pannelli che raccontano la storia degli ebrei di Daugavpils, alcuni dei quali divenuti famosi in vari ambiti sia in Unione Sovietica sia nei paesi in cui sono emigrati; in particolare, a parte Israele, numerosi emigrarono in Sudafrica già negli anni ’30 del ‘900. Mentre in una bacheca sono esposti vari oggetti rituali, tra cui rotoli della Torà realizzati manualmente a metà ‘800.
La fine del viaggio
Per tutta la durata del viaggio, ho provato una sensazione strana: non riuscivo a capacitarmi all’idea di trovarmi realmente in un Paese che fino a quel momento avevo conosciuto solo attraverso i racconti di mia madre e di mia nonna, ma che non riuscivo a sentire fino in fondo come parte delle mie radici. Se in precedenza tutto ciò mi appariva come qualcosa di astratto ed evanescente, per la prima volta ne ho toccato con mano la realtà concreta. Credo che questo viaggio mi abbia reso molto più consapevole riguardo alle mie origini.
Guardando fuori dal finestrino dell’aereo di ritorno, non si può fare a meno di ammirare le immense foreste che circondano Riga e altri centri abitati. Tra quegli alberi, quelle strade e quei palazzi, riecheggiano le voci di un passato doloroso e di un futuro incerto. Ma anche se ormai l’ebraismo lettone sembra essere stato consegnato alla storia, non mancano figure coraggiose che con tenacia e perseveranza cercano di mantenere in vita questa importante eredità.
Laddove sia l’occupazione sovietica sia quella nazista hanno lasciato cicatrici profonde, oggi c’è chi teme che un giorno non lontano un tiranno da Mosca possa ancora una volta gettare la sua lunga ombra su questa terra. Per non pensare alla minaccia che incombe, si può solo sperare per il meglio e prepararsi al peggio; qualcosa che riesce più facile camminando lungo la spiaggia di Liepaja per sentire il vento sulla pelle. Il freddo vento del Mar Baltico.