Il giudeo-mantovano raccontato da Emanuele Colorni, al Nuovo Convegno

di Michael Soncin
“La zona del ghetto di Mantova è abbastanza ampia, ma oggi di quello storico quartiere è rimasto ben poco, al posto delle case originarie, quasi tutte demolite, sono sorti diversi edifici di prestigio”. Inizia così il racconto di Emanuele Colorni, Presidente della Comunità Ebraica di Mantova (comunità che oggi conta poco più di 50 iscritti), durante la conferenza del 23 marzo organizzata a Milano da Il Nuovo Convegno, circolo ebraico milanese di cultura, che nell’arco di una serie di interventi dedicati alle varie parlate ebraiche d’Italia, in quest’occasione ha trattato il giudeo-mantovano.

Come spiega Colorni, oggi è una lingua che non è più parlata, poiché quello che manca è proprio la presenza degli ebrei. “Attualmente nel ghetto, non c’è più nessuno. Portando in giro i turisti, mi capita di illustrare quello che ancora si può vedere, quella vita sociale estremamente attiva, difficile da rappresentare a voce. Visitandolo si noteranno ancora quei vicoli appariscenti, ma senza più quei suoni, quei rumori che alla fine degli anni ’50-’55 del Novecento, si udivano: parlavano un dialetto particolare, il dialetto giudaico-mantovano”.

Il Presidente della Comunità Ebraica di Mantova, Emanuele Colorni, marzo 2023, presso Libreria Claudiana di Milano

Non tutto è perduto. “Oggi ho trovato il modo di riappropriarmi quei suoni, ripescandoli nella mia memoria, studiandoli. Ricordo io stesso che la nostra domestica cristiana, che ha vissuto tanti anni in famiglia con i miei genitori, in un qualche modo, lo parlava. Per l’esattezza era un dialetto mantovano infarcito di parole ebraiche, l’esempio tipico, classico, anche se inconscio di queste tracce fossili, che sono entrate nell’uso popolare dei non ebrei”.

Colorni, ricorda che simpatia, una parola in particolare pronunciata dalla domestica quando lui era ancora un bambino: chalomòt (frottole, fantasticherie). “Me lo diceva spesso, perché facevo sempre i capricci quando dovevo mangiare, “…l’è sémpar pièn da calomòt…”, era solita ripetere.

 

Testimonianze dell’antico dialetto di un medico ebreo
Molte delle testimonianze di questo prezioso idioma ci provengono dalle poesie dialettali di Annibale Gallico (1876-1935), un valente e giovane medico ebreo del posto. “Era nato a Mantova il 28 gennaio 1876 da Ernesto e Giuseppina Levi, terzogenito di una famiglia numerosa con 8 figli, 5 maschi e 3 femmine. Gallico scrisse nel dialetto parlato dagli ebrei mantovani, numerose poesie e poemetti ispirandosi alla vita nel ghetto di Mantova, negli anni a cavallo tra due secoli”.

Colorni, durante il suo coinvolgente racconto, ha letto anche alcune delle poesie di Gallico, che sono raccolte in un canzoniere, curato dalla linguista Sara Natale, intitolato Storie vecie, volume contenente esattamente 83 componimenti, tra sonetti, ottonari, e poemetti.

Le sue poesie illustrano, in modo ironico, garbato, utilizzando questo dialetto particolare, la vita di Mantova nel ghetto, del chazan, il cantore della sinagoga, del rabbino, dei vari iudim, che sono descritti in modo molto buffo. La maggior parte dei personaggi immortalati da Annibale Gallico sono realmente esistiti ed i loro nomi si trovano tra le pagine dei registri anagrafici della Comunità ebraica mantovana. Il merito dunque del poeta mantovano è duplice: ha tramandato la parlata di un dialetto oggi scomparso ed ha ritratto nei suoi vari aspetti quella microsocietà ebraica dell’ex ghetto, oggi scomparsa”.

Colorni, spiega inoltre un fatto importante: “Mentre il linguaggio del volgo mantovano si è evoluto liberamente fuori dal ghetto e si è modificato lentamente nel corso del tempo (ad esempio la vocale e si è trasformata in a: pàder-pàdar, lìber-lìbar, sèmper-sèmpar…), all’interno del recinto degli ebrei – a Mantova il ghetto venne istituito nel 1612 – esso non ha subito alterazioni conservandosi abbastanza simile a quello parlato a Mantova nel Cinquecento. La parlata giudeo-mantovana è appunto il vernacolo che gli ebrei parlavano in origine in modo non diverso da quello dei concittadini cristiani in mezzo ai quali vivevano. La segregazione degli ebrei nel ghetto condusse così ad una completa staticità del loro linguaggio contrapposta alla mobilità di quello dell’ambiente circostante che viveva in condizioni di libertà”.

Tra le diverse poesie di Gallico lette da Colorni, ce n’è una che è una breve esortazione rivolta ad un rabbino, che come lui spiega “risulta molto evidente il ‘mescolamento’ tra dialetto e termini ebraici”.

Sior morèno, sior morèno
Su che dìga un aschivèno,
che se dàga con kochmà
la sò santa berackà

“Fino a poche decine d’anni fa erano comuni in ghetto alcuni modi di dire: Ad esempio: Sciabat non è e la borsa non gh’è, circa l’inutilità di porsi problemi prima che siano realmente d’affrontare, o Ai chamorim non ghe piàsen i confetti, ovvero agli sciocchi non piacciono le cose buone”

 

Emanuele Colorni è autore assieme a Mauro Patuzzi del libro C’era una volga il ghetto. Storie immagini e guida di Mantova ebraica. Per informazioni sul testo, vi invitiamo a consultare il sito della Comunità Ebraica di Mantova: comunitaebraicamantova.it