di Ilaria Ester Ramazzotti
In ebraico si chiama montagna di zafferano, Har Karcom, in arabo anche montagna dei giorni santi o delle moltitudini, Jabal Ideid o Gebel Ideid. Ma da tempo l’archeologo italiano Emmanuel Anati è convinto che quell’altura calcarea e giallastra alta meno di 850 metri, nel sud-ovest del deserto del Negev, sia il biblico monte Sinai. A partire dal 1954, quando a dorso d’asino vi è salito per la prima volta, lo studioso vi ha ritrovato numerosi riferimenti archeologici al racconto dell’Esodo, ma anche una serie di siti d’interesse, reperti e incisioni rupestri che oggi suscitano un rinnovato interesse.
Il Times of Israel ha pubblicato questo mese un articolo sul tema, comprendendovi le controversie sorte da quando nel 1983 Anati ha annunciato di avere localizzato geograficamente il monte descritto nella Torah e di trovare riscontro con la narrazione biblica. Secondo le Scritture, agli israeliti occorsero undici giorni per andare da Horeb [altro nome del biblico monte Sinai] a Kadesh Barnea, località nel nord della penisola del Sinai: ‘Vi sono 11 giornate dall’Horeb, per la via del monte Seir, fino a Kadesh Barnea’ (Deuteronomio 1:2). Anati ha identificato il Seir, il ‘monte peloso’, nel monte ‘Urayf an Naqah in Egitto, calcolando che, passando di lì, servono proprio undici giorni per andare a piedi, col bestiame al seguito, dal monte Karkom alla località egiziana Ein Kudeirat, ampiamente riconosciuta come Kadesh Barnea. Per contro, altri studiosi ritengono che il monte Sinai sia il Gebel Musa, luogo del monastero di Santa Caterina e di pellegrinaggi cristiani.
Il panorama del ‘monte di zafferano’ mostra tuttavia i segni di millenni di storia culturale e religiosa. Seguendo la sua linea, Anati ha intrapreso sull’Har Karcom numerosi scavi archeologici scoprendo che fu uno dei maggiori centri di culto del periodo paleolitico, con il suo altopiano costellato da 300 siti paleolitici, da luoghi di culto di differenti popoli, altari, cerchi di pietra, tumuli funerari, utensili e strumenti di caccia, pilastri antropomorfi e oltre 40 mila incisioni rupestri, alcune risalenti a 7 mila anni fa. Una serie di ritrovamenti avvallerebbe inoltre il racconto biblico del soggiorno degli israeliti nel deserto. Fra questi, un anfratto a misura d’uomo che, come vuole la tradizione, avrebbe riparato Mosè dalla luce del passaggio di D-o al momento del dono delle Tavole della Legge. Ma non solo. C’è il sito del ‘roveto ardente’, localizzato in un anfratto nella roccia che assume un particolare bagliore dorato al calare del sole. E ci sono le dodici steli e la pietra piatta che ricordano degli altari per le offerte, che Anati collega al versetto dell’Esodo 24,4: ‘Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele’. Non ultima, c’è una serie di monoliti antropomorfi che formano un santuario paleolitico e che l’archeologo ricollega alla vicenda biblica della moglie di Lot, tramutata in una statua di sale.
La tesi di Anati viene tuttavia respinta da altri studiosi. Diverse sono le ragioni. In primis, ritiene che sul monte Karcom si siano svolte attività rituali dal 4000 al 2000 a.C. ma non nel corso XIII secolo a.C., che comunemente è il secolo associato al periodo dell’Esodo. La teoria di Anati sposterebbe indietro di almeno mille anni alcune delle vicende bibliche e implicherebbe una revisione storica delle aree popolate dai madianiti, dagli amaleciti e da altre popolazioni antiche. Ma, a riconferma della sua linea, Anati ha recentemente detto al Times of Israel che “la concezione dell’archeologia in Israele ha cento anni” e si limita a “descrivere e datare, senza guardare al contenuto”. Gideon Avni dell’autorità per le Antichità israeliane ha invece dichiarato di non riscontrare tracce certe di antichi riti religiosi sull’Har Karkum, a parte quelle simili ad altri luoghi e culture, senza alcuna prova scientifica che il ‘monte di zafferano’ sia unico. E, quasi a declassare il tema, ha aggiunto che “nel XIX secolo si discuteva su dove fosse il monte Sinai”, ma oggi, considerando “i grandi dibattiti sull’autenticità delle storie bibliche, nessuno in Israele, tranne Anati, sta ancora cercando di trovarne i luoghi geografici”. Dal canto suo, Anati è soddisfatto di aver rilevato oltre un migliaio di siti e milioni di reperti che attestano una presenza massiccia dal Paleolitico in poi in un’area di 200 chilometri quadrati che in passato si riteneva priva di resti archeologici. Alle pendici del monte Karcom, ha inoltre le tracce di centinaia di antichi accampamenti, che parlano dei tanti uomini che lì si fermarono. Proprio come racconta l’Esodo.
I geoglifi del Negev che si vedono solo dal cielo e il nuovo interesse per tesori del deserto e del monte di zafferano
A partire dagli anni Novanta, nuove indagini aeree hanno aggiunto all’elenco delle meraviglie racchiuse nel paesaggio del ‘monte di zafferano’ e del deserto del Negev i resti di oltre cento geoglifi, di cui una ventina ben riconoscibile: grandi e suggestivi disegni sul terreno fatti di pietre, frammenti di rocce, ghiaia o terreno oppure ottenuti tramite la loro rimozione dal suolo. È possibile ammirali come forme coerenti e immagini complete solo dall’alto, come le linee di Nazca del Perù. Così, dal cielo sopra il Negev si possono osservare ritratti di persone che pregano, cacciatori e animali a quattro zampe, alcuni dei quali, secondo Anati, estinti da tempo. Ci sono anche iscrizioni in molte lingue, che vanno dal periodo ellenistico e romano all’era bizantina e islamica. Sono numerosi i geoglifi messi sulle mappe della zona dagli studiosi, ma secondo Gideon Avni è proprio il monte Karkom a conservare i più grandiosi.
Per lo studioso israeliano Uzi Avner, una buona parte delle immagini disegnano lo stambecco nubiano maschio adulto, a volte ritratto con la luna o le stelle. Secondo Avner, l’immagine può rappresentare un ciclo di vita e di morte e forse un dio morente e poi risorto, correlato alle piogge, alla fertilità del suolo, agli animali e agli esseri umani. Altre immagini si riferiscono al mutare delle stagioni. L’archeologo Lior Schwimer ha invece identificato la sorprendente figura di un occhio che viene ombreggiato da una roccia unicamente il 21 del mese dicembre, giorno del solstizio d’inverno.
In questo ampio scenario, Anati ha studiato in particolare alcune immagini che evocano episodi biblici: un serpente e un bastone scolpiti che ricordano Mosè quando gettò a terra il suo bastone, poi divenuto un serpente (Esodo 4: 2-3). Un’altra formazione, divisa in dieci sezioni, ricorda le Tavole di pietra con incisi i Dieci Comandamenti. Una terza incisione, trovata vicino a una pozza d’acqua, si ricollegherebbe al versetto del Deuteronomio 8: 14-15, in cui D-o comanda agli israeliti di non dimenticare Colui che ‘vi condusse attraverso il vasto e terribile deserto infestato da serpenti velenosi e scorpioni, e il saraf [una lucertola velenosa], dove non c’era acqua, che ti ha portato l’acqua dalla dura roccia’.
Dagli anni Ottanta, il monte Karcom fa parte dell’enorme riserva naturale degli altopiani del Negev. La zona viene utilizzata dalle forze di difesa israeliane per l’addestramento durante la settimana, ma è aperta al pubblico nei weekend. Anati, insieme alle autorità, negli anni Novanta ha tracciato diversi percorsi per i turisti, a una certa distanza dai siti archeologici. Shwimer ha stimato dai 10 mila a 15 mila visitatori all’anno, ma i numeri sono in crescita. Oggi, spiega il Times of Israel, chiunque abbia un’auto 4 × 4 e utilizzi Google Earth o una app di navigazione può facilmente raggiungere i tesori dell’altopiano, mentre alcuni visitatori avrebbero addirittura causato dei danni. Per questo, alcuni gruppi di rocce selezionati saranno delimitati e protetti perché possano essere ammirati da lontano, ma non toccati. Nel frattempo, Emmanuel Anati, che ha una casa nella città di Mitzpe Ramon nel Negev, sta cercando di raccogliere i fondi per un grande museo che possa illustrare i suoi numerosi reperti rinvenuti nel Negev e sulla ‘montagna di zafferano’.