di Ariel Arbib
“Evienu le Zion be Rinnà”
“Riportaci a Zion con Gioia”
Nel Talmud è scritto che nella vita, nulla accade per caso e nulla succede, se non per il fatto che noi stessi in qualche modo siamo gli artefici degli eventi o non ne creiamo i presupposti perché essi accadano. Può succedere per questo che, fatti incomprensibili e incredibili possano sembrarci assurdi a prima vista, ma in effetti non sono altro che il risultato dei nostri consapevoli o inconsapevoli interventi.
Sembrerebbe altrimenti impossibile comprendere questi strani accadimenti, se non attribuendoli a misteriosi ed incomprensibili episodi di magia quando, inspiegabilmente, nel normale e monotono scorrere del tempo, situazioni così lontane tra loro nello spazio, così improbabili, si materializzano come piccoli pezzetti di un enorme puzzle, andando a ricomporsi e dando forma a qualcosa che pima non c’era. Piccole modeste tessere sparse in ogni dove, ritrovano a mano a mano il loro naturale alloggiamento rendendo finalmente possibile la visione di un unico quadro d’insieme, completo, significativo, che non avremmo mai nemmeno lontanamente immaginato di poter toccare un giorno con mano.
La filosofia araba è portata a spiegare questi accadimenti con una sola parola: Maktub: E’ scritto!! Definendo così ermeticamente il destino di ciascuno di noi come un fatto già stabilito e preordinato dall’Alto e dal quale nessuno può prescindere o sfuggirne.
Chi invece come me crede che nella logica dei gesti di ciascuno di noi ci sia qualcosa di Divino, è portato a ritenere che con la volontà delle proprie azioni sia possibile condizionare la nostra vita e quella degli altri in maniera trascendente, intervenendo cioè in situazioni che a prima vista possono sembrare banali e casuali, ma che in verità spesso determinano cambiamenti epocali ed in qualche caso direi miracolosi.
Quella che sto per raccontare è verosimilmente una storia come queste, non ha per protagonista un eroe e nemmeno un’eroina , ne un miracolato, ne il protagonista di un accadimento magico, ma è l’incredibile storia, il tragitto di un oggetto sacro, un prezioso manto di preghiera, un Tallet di seta. Quello di mio padre.
Colui che lo aveva così finemente tessuto e ricamato a Tripoli, quasi due secoli fa, aveva probabilmente già stabilito quale sarebbe stato il suo meraviglioso destino.
Tripoli 1915: uno Shabbat di Febbraio di quell’anno.
Bar Mitzva di papà Roberto. Slà el Kbira. Nonno Alfonso, alla fine della Amidà di Musaf, benedice commosso il proprio figlio con il suo Tallet. Se ne copre il capo, tenendo tra le dita due dei quattro Zizziot degli angoli e poi, poggiando le lunghe mani nodose da ebanista sul capo del suo primogenito, recita in ebraico le parole antiche della Benedizione così cariche di sacralità e di solennità che, partendo dalle labbra, arrivano direttamente dal cuore all’anima:
“Che H. ti benedica e ti protegga, Faccia risplendere il Suo Volto su di te e ti custodisca, Volga H. il Suo sguardo su di te e ti infonda la Pace”.
Alla fine, di questo rituale, le urla festose delle donne avvolte nei loro sgargianti barracani di seta, si levano dal matroneo in segno di gioia mentre, spruzzi di essenza di fiori d’arancio vengono sparsi nell’aria per la gioia di tutti e dell’olfatto.
Qualche anno dopo quel giorno, il Tallet che era stato fino ad allora del nonno, passò di dritto a mio padre, che ne fece uso per tutto il resto della sua vita. Giunse in Italia, assieme a tutto il resto dei bagagli della famiglia, via nave da Tripoli nel 1948, destinazione Eretz Israel, dove però non riuscì ad arrivare, ma questa è un’altra storia… Papà continuò ad indossarlo durante i tanti Shabbatot della sua lunga vita vissuta a Roma, benedicendo nei giorni solenni ,a sua volta, tutti noi figli ed in seguito anche i tanti nipoti che nel frattempo avevano reso la nostra famiglia più numerosa.
Passano gli anni ed il giorno del mio matrimonio con Barbara è finalmente in arrivo. I preparativi preliminari scorrono con allegria, ma anche con fatica, fino a che, in un torrido pomeriggio di Luglio, sotto la Kuppà come vuole la tradizione, davanti a due Rabbanim, pronunciamo entrambi il fatidico sì, coperti dal grande Tallet di papà. Alle nostre spalle, i nostri rispettivi genitori poggiando le loro mani sul capo degli sposi, assecondano con commozione e qualche lacrima, le parole della Berachà che ci viene impartita dal Cantore.
Purtroppo dopo pochissimi anni da quel giorno, dopo una breve malattia, papà ci lasciò per sempre. Era la Vigilia di Shavuot.
Noi figli, tutti stretti intorno a nostra madre, vedevamo amici e parenti avvicendarsi in casa amorevolmente e senza sosta in quelle tristissime prime ore dopo la sua dipartita. Venivano a farci visita, dimostrandoci così il loro affetto sincero e la loro commossa partecipazione al nostro lutto. Arrivò quindi il giorno più terribile, quello del funerale.
In quelle interminabili ore in casa si respirava una fortissima tensione, mentre le persone addette facevano quanto necessario per preparare mio padre, secondo la Tradizione, verso il suo ultimo viaggio. Per questo, il Rabbino che dirigeva i rituali, ci chiese di consegnar loro il Tallet di papà, nel quale sarebbe stato avvolto per sempre.
Ognuno di noi si era ritagliato il suo spazio tra le stanze della casa, da dove osservare in silenzio lo svolgere delle cose. Uno dei miei fratelli, assieme a me nella stessa camera, raccogliendo la richiesta del Rabbino, andò verso un armadio di casa e ne tirò fuori una custodia di velluto blu, con sopra un ricamo in oro che raffigurava un Maghen David e glielo porse.
In quel preciso momento, uno di quegli avvenimenti inspiegabili di cui parlavo prima, si stava per delineare e definire ed infatti, afferrata d’istinto quella custodia di velluto stringendomela al petto come a proteggerla, mi fece dire al Rabbino, in una immediatezza quasi automatica: No!!, quel Tallet avrei voluto tenerlo io per ricordo di mio padre. E così gliene porsi un altro.
Conservai da allora in casa mia quel prezioso scialle, senza mai più utilizzarlo, fino a quando, qualche anno dopo, decisi di ricordare mio padre indossandolo durante le preghiere del nostro giorno più sacro, lo Yom Kippur. Aprii la custodia blu, sbottonando i suoi due bottoni di madreperla e ne tirai fuori il manto centenario di seta per controllarne lo stato. Mi resi subito conto però, che lungo le piegature si erano create delle lacerazioni che ad una semplice pressione si allargavano vistosamente. Ripiegai quindi il tutto con estrema delicatezza e lo riposi di nuovo nel suo sacchetto di velluto, facendo bene attenzione a coprire gli Zizziot. Per quell’anno e per i successivi, continuai ad usare il mio Tallet abituale.
Passati ancora diversi anni da quell’episodio, venni a sapere che al Museo ebraico di Roma si stava allestendo una sezione dedicata alla Storia e alla Cultura ebraica tripolina. Allora, la Direttrice del Museo era la nostra cara e amatissima amica Daniela Di Castro, z’L’ ed a lei mi rivolsi per sapere se per caso fosse stato possibile far dono al Museo del famoso Tallet affinché venisse posto nella nuova sezione.
Quando però visionammo assieme il manto, ci rendemmo conto che non sarebbe stato possibile esporlo se non dopo un necessario intervento per eliminare tutte le smagliature e le lacerazioni che si erano venute a creare per il passare degli anni. Mi indirizzò per questo ad un laboratorio specializzato nella salvaguardia proprio dei tessuti antichi, al quale mi rivolsi subito dopo consegnando il Tallet per le dovute cure. L’esperto, prima di procedere mi volle però precisare che dopo il trattamento, non avrei più potuto usare lo scialle se non per esporlo o per conservarlo, ma mai più per farne l’uso per cui era stato creato. Me lo riconsegnò dopo lunghi mesi di lavoro, perfetto, senza più quelle cicatrici del tempo che lo avevano deturpato, avvolto su di un lungo tubo di cartone. Così rimase, in un angolo della mia casa per ancora tanti anni perché, la vetrina del Museo ebraico di Roma che avrebbe dovuto ospitarlo, si era già riempita nel frattempo, di altri oggetti e manufatti che avevano tolto spazio al nostro Tallet. Sembrava, ancora una volta, che un destino imperscrutabile avesse deciso per lui qualcosa di diverso e che quella cioè, non dovesse essere la sua destinazione finale.
Arrivando ai giorni nostri, durante una cena di famiglia, ebbi l’occasione di sedermi vicino un’altra adorabile e cara amica, Gioia Perugia che vive a Gerusalemme, per altro divenuta parte della nostra famiglia, per via di un matrimonio tra suo fratello e una nostra nipote. Parlando assieme di tutto un po’, mi spiegò che lei ora lavorava presso il Museo d’Israele a Gerusalemme di cui tutt’ora è la responsabile, “udite udite!!”, della cura e la ricerca di oggetti provenienti dalla Diaspora ebraica nel Mondo. Come non parlarle allora del nostro Tallet, della sua storia e della volontà di donarlo al suo Museo? E così, durante un successivo viaggio a Roma, Gioia venne a casa nostra per visionare il manto. Lo srotolammo assieme con molta cautela e lo stendemmo con cura sul pavimento. Rivedendolo così adagiato dopo tanti anni mi resi conto ancora una volta della sua grande bellezza e delle enormi dimensioni, mentre commosso ne scrutavo attentamente ogni particolare, come le eleganti striature in argento, le piccole frange laterali e la larga fascia a protezione del collo, sulla quale si intravedeva a malapena una scritta ricamata ton sur ton.
Passati forse un paio di mesi da quell’incontro, ricevetti da Gioia una bellissima notizia!! Il Museo d’Israele avrebbe accettato definitivamente il nostro Tallet tra le sue Collezioni di reperti antichi, avendolo riconosciuto come manufatto prezioso, di grande interesse storico-artistico ed un ulteriore testimonianza della Cultura e delle Tradizioni della Comunità ebraica di Libia. Ancora più emozionante fu per noi apprendere che il Tallet di nostro padre Roberto Avraham Arbib z’L’, sarebbe stato esposto definitivamente, da lì a poche settimane, in una teca del Museo.
Una gioia, ed un orgoglio infiniti per noi tutti, nipoti e pronipoti compresi, era stato già l’aver appreso quella fantastica notizia, che ora si aggiungeva alla voglia e alla curiosità di arrivare a Gerusalemme per ammirare il manto e vedere dove e come era stato esposto.
Da tanti anni oramai, la nostra famiglia trascorre in Israele, quasi tutta riunita, la festa di Pesach ed anche questo 2014-5774, non ha fatto eccezione. Appena arrivati chiamai Gioia al telefono e le chiesi, quando fosse stato possibile andare da lei al Museo. Fissammo un giorno e con la trepidazione e l’ansia identica a quando ero andato a verificare il risultato degli esami alla fine del Liceo, arrivammo davanti all’ingresso del Museo di Gerusalemme. Gioia era lì che ci aspettava assieme ad un fotografo ed una curatrice, in attesa di condurci davanti alla teca. La trepidazione provata fino a poco prima si trasformò immediatamente in commozione ed una gran voglia di piangere e di cantare l’Hallel e Bar-Yochay…
Rimasi a guardare e riguardare quel manto, che così bene ricordavo e sotto al quale decine e decine di volte avevo sentito le mani di mio padre poggiate sul mio capo. Un oggetto della nostra famiglia, ora era lì, perfettamente composto su di un lungo busto di legno, per farsi ammirare da tutti.
L’ultimo elemento del puzzle, stava ora per trovare posto nell’ unico spazio ancora vuoto. Mi avvicinai al vetro della teca incuriosito da quella scritta didascalica bilingue che era stata apposta sul vetro, in ebraico ed in inglese e lessi:
Prayer swall (tallit) Tripoli-Lybia, late 19th– early 20th century Silk, metal thread.
Gift of Eliyahu, Moshe, Ever, Aliza, Ariel Arbib Rome. In memory of thei father, Avraham Roberto Arbib. Liturgical phrase woven on the neck band
“Bring us to Zion rejoicing ”
Il mio inglese, se pur accettabile, non comprendeva ancora nel mio vocabolario la parola “rejoicing”. Mi avvicinai quindi a Gioia e le chiesi il significato, guardandola negli occhi. Mi disse: ”Ci ricondurrai a Zion con Gioia”. La guardai incredulo e urlai con meraviglia: “Con Gioia?! Allora è con te?! Sei tu la Gioia di cui parla la frase ricamata??” La abbracciai commosso e la ringraziai ancora una volta per ciò che aveva reso possibile e tornando a Tel Aviv, riflettendo su tutto ciò che era stato, mi resi conto che finalmente avevo davanti a me il “puzzle” completo e la totale visione d’insieme di una storia alla quale non mi fu difficile attribuire qualcosa di miracoloso.
Questa è dunque la storia di un Tallet centenario e delle sue straordinarie peripezie. Ora e per ancora moltissimi anni, riposerà proprio lì, dove da sempre, ostinatamente aveva voluto arrivare: Har Zion!!