di Marina Gersony e Colette Shammah
Tra arte e fotografia: Diane Henin Safra. Libano, Svizzera, Italia, Israele. Esilio e identità, appartenenze multiple, una sofferta indagine di sé che si fa arte. Alla ricerca del volto dell’Altro e di una intimità impossibile. Ritratti fotografici con cui Diane Safra ci dice che solo ciò che è nascosto merita davvero di essere “visto”
Schiva, riservata, non ama parlare di sé ma chi ha l’opportunità di conquistare la sua fiducia scoprirà un mondo. Diane Safra, fotografa, viaggiatrice, poliglotta, figlia di una storica dinastia di banchieri e soprattutto spirito libero, si racconta. Nata a Milano per caso – dove è rimasta cinque anni sempre per caso -, in seguito si è trasferita con la famiglia a Ginevra e poi ha girato il mondo. Figlia di Elie e Yvette Safra, nata nel 1951, Diane ha frequentato il Conservatorio di Ginevra, il Lee Strasberg Theatre and Film Institute a New York e la Dada School of Photography a Gerusalemme. Ha esposto le sue opere un po’ ovunque, a Milano, Singapore, Tel Aviv… «Il suo occhio fa finta di fermarsi davanti a un cancello, a un tubo di metallo arrugginito, a pezzi di legno tenuti da un filo di ferro: in realtà racconta storie d’amore, d’abbandono, d’incontri inaspettati, di paura e speranza. In questo senso le sue immagini non sono mai delle nature morte, oppure in pausa. Sono piuttosto dei momenti autobiografici, sensibili racconti di un’anima che trova nell’universo concreto l’alimento dei suoi sogni poetici e spirituali», ha scritto di lei il critico Ralph Toledano. Un mondo allusivo, tenuto insieme da una rete di simboli. Una vita intensa, ricca di viaggi e personaggi. L’abbiamo incontrata recentemente a Milano in occasione del Mia Photo Fair, la prestigiosa Fiera Internazionale d’Arte dedicata alla fotografia e all’immagine in movimento.
«Uso la fotografia perché ho una memoria visiva e mi considero una persona contemplativa, mi piace ascoltare e mentre ascolto, il corpo dell’altro si fa avanti e ho il desiderio di fermare quel momento. Indago l’intimità.
Mi sono sempre sentita a mio agio con il Caso, il più delle volte ha giocato a mio favore. I miei genitori hanno lasciato Beirut dopo la nascita dello Stato di Israele, anche se non furono condizionati da quella data. La tensione comunque era nell’aria e loro cercavano un posto nuovo dove poter vivere. A quei tempi non si davano troppe spiegazioni ai bambini. Siamo andati in Francia, poi in Svizzera e infine a Milano, dove sono nata. Erano gli anni Cinquanta. Ovunque, i miei genitori vivevano come se fossero ancora in Medioriente. Per loro le capitali europee erano interessanti e accoglienti, ma non erano le loro città. Pur avendo aperto banche in tutta Europa, si sentivano a casa solo seguendo le vecchie abitudini».
Passeggiate milanesi
Diane ricorda il padre Elie, le passeggiate milanesi. «A volte mi faceva paura. Ricordo la sua tenerezza quando mi teneva per mano. Ricordo i giardini di Corso Venezia e il Duomo che mi ha tanto impressionata. Ero la figlia più piccola. Ho vissuto in albergo, prima al Manin, poi al Cavalieri. Da allora li adoro, mi ci sento a casa. Ricordo poi la mia governante, Erminia Rubini, l’ho molto amata e mi è mancata terribilmente quando siamo partiti dall’Italia per stabilirci a Ginevra. Fu la prima grande separazione. Da un giorno all’altro non la vidi più e la cercai disperatamente. I miei fratelli non mi capivano, mi sono sentita spesso relegata in secondo piano. Ero marginale, invisibile».
Dopo un lungo girovagare, anni di Svizzera, di America e numerosi viaggi in Brasile, Diane è alla disperata ricerca di un luogo che le appartenga. «Così mi sono ritrovata in Israele, a Gerusalemme. Una nuova esistenza, ho trovato il senso per vivere e combattere. Il dato stupefacente è che ero arrivata per trovare le mie radici orientali e invece ho scoperto un mondo nuovo, idee nuove e progetti rivoluzionari. Nessun “odore” di Medioriente».
Del Libano invece, che cosa ricorda?
«Ci sono stata con i miei genitori quando avevo dodici anni. Loro erano molto affezionati al Libano e anch’io me ne innamorai. Lì ho sentito le mie radici, è stato il viaggio più importante della mia vita. Quello che mi ha regalato l’ho conservato per sempre: la lentezza, l’ospitalità, la gentilezza, la riservatezza. Ero più matura della mia età e riuscivo a sentire le emozioni adulte. Tuttavia nessuno mi chiedeva cosa pensassi o cosa provassi. Non si usava. Avevo 12 anni».
Sentirsi “invisibili”
A quando le sue prime passioni?
«Proprio perché mi sono sentita invisibile, ero ossessionata da tutto ciò che era nascosto. E anche dal suo contrario. In questo senso la fotografia mi ha molto aiutata. Mi piace restare un passo indietro di fronte al mondo. Voglio capire quello che succede intorno a me non soltanto i fatti, ma anche l’osservazione, il linguaggio. La filosofia mi aiuta a restare in piedi. Dal mio matrimonio sono nati tre figli. Faccio poche foto, guardo, osservo, fisso e scatto. One shot, se riesce bene, altrimenti sarà per un’altra volta. Riuscire per me significa captare l’istante dell’ombra. Anche la fotografia, che è la mia espressione più diretta, è nata per caso. Mi trovavo a Gerusalemme nel quartiere di Talpiot, vicino al Teatro Han. A un certo punto della strada vidi un’insegna con scritto “DADA”. Adoro i dadaisti e mi considero una di loro. Sono entrata in quel luogo e tutto è iniziato. Era una scuola di fotografia e anche galleria per mostre e eventi. Mi venne incontro un uomo, Yoram, e mi chiese se volevo partecipare a incontri o seguire il corso. Tutto accadde in fretta. Le foto, i premi, le esposizioni. La camera oscura mi ipnotizzava. Ho un modo tutto mio di sviluppare. Restavo delle ore nella camera oscura. Mi sentivo al sicuro, nel grembo della madre, fuori dal mondo. Era un periodo di guerra, Gaza, bombe, violenza. Lo spazio di Yoram era facile per me. Mi sentivo a mio agio. Cosa molto rara. Sono una fotografa soltanto da vent’anni. E anche la mia professione nasce grazie a un rapporto umano. Quello con Yoram».
Un ricco mondo emozionale
«All’inizio ero sedotta dai volti, dai ritratti. Un viso si offriva a me, mi dava la sua verità, toccava a me riprodurlo secondo il mio punto di vista, che per la fotografia è l’insieme di luce e ombra. Quello che mi emoziona è quello che ho solo intravisto e che non è visibile immediatamente. Non c’entra con il risultato della foto. Mi piacciono le proporzioni, le distanze, lo spazio. Ho scattato tanti ritratti. Cerco l’aspetto malinconico. I ritratti sono come delle icone. Amo le icone. In Grecia, a Creta, nel Sinai, a Santa Caterina, amo anche i ritratti dei re egiziani. Ho esposto in mostre collettive di soli ritratti. È stato un confronto importante».
Lei ha partecipato a diverse mostre, a Singapore, a Gerusalemme, a Tel Aviv e adesso al Mia Photo Fair a Milano, dove ha partecipato per tre volte.
«Ho molti fotografi negli occhi, da Cartier Bresson a Nan Goldin. Il Mia quest’anno aveva come tema anche Israele. Le porte che si affacciano su abissi e mondi oscuri, Gerusalemme, il Mar Morto, il Museo di Tel Aviv. Gerusalemme: luoghi e identità a cui mi sento più vicina. Ho presentato le mie foto, dove “nascondo e scopro”. Nascondo quello che si vede e mostro quello che non si vede. Trasformo la realtà a mia insaputa. Penso che sia questo a definire il mio modo di fotografare. Gli oggetti si trasformano: non sarà la lampada come è, bensì la lampada per quello che allude».
Quali sono i suoi modelli?
«Per i ritratti, mi hanno impressionato quelli del Fayum e delle Vergini del Rinascimento. Cerco nei volti di oggi i volti di un tempo, mistici ed epurati. Capto quell’istante che è presente in tutti noi. Quello dove passato e futuro si mescolano. Visi che nascondono la loro verità. Vedo spesso un viso nascosto dentro al viso che mi si presenta. Mi piacerebbe fotografare Gèrard Depardieu. Penso che lui nasconda quello che è dietro a quella montagna e al suo corpo grosso».
Che cosa è oggi la fotografia?
«La fotografia ha perduto il suo fascino, è diventata troppo popolare, troppo facile da produrre. Manca quell’ossessione per il mistero che mi spingeva a scattare. Frutta, nature morte, un uovo. L’uovo ha una forma perfetta e mi immagino il giallo dentro che resta compatto, puro, accanto al bianco albume. Questo mi ispira. Le nature morte sono un gioco di luce, facile ma impegnativo. E così la frutta. In questa mostra a Milano ho portato monconi di ricordi, case distrutte al posto delle quali oggi sorgono grattacieli. Anche il kibbutz rappresenta una società che sta scomparendo. Restano le porte, a volte le scale. Ho fermato pezzi di vita uniti dall’abbraccio della stessa terra».