«Interpretando Mosè ho imparato che la vulnerabilità può diventare una forza»

di David Zebuloni

Dai quartieri poveri di Dimona ai set del cinema internazionale. Dal Neghev a Tel Aviv, da ragazzino bullizzato
a protagonista della serie Netflix su Mosè. I turbamenti di un uomo timido diventato una star. Intervista all’attore Avi Azulay

 

Più che essere un film targato Netflix, la storia di Avi Azulay è una favola Disney. Un perfetto cenerentolo dei giorni nostri, con gli stivali in pelle al posto delle scarpette di cristallo. Nato e cresciuto in un quartiere periferico nel sud di Israele, ultimo figlio di sette fratelli (due dei quali morti tragicamente in giovane età), Avi ha sempre sognato di fare l’attore, ma la realtà circostante non gliel’ha mai permesso: prima la scomparsa del padre, poi la dipendenza dalle scommesse. Quando è finalmente riuscito a lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato, Avi si è trasferito a Tel Aviv, ha studiato recitazione e ha dato inizio ad una discreta carriera teatrale. Così, ha avuto inizio la fase più mortificante della sua vita. Nonostante il grande talento e il look da uomo vissuto che tanto piace agli israeliani (e non), il giovane attore non ha superato nessun provino per i ruoli cinematografici che tanto desiderava. Poi, la svolta. La più grande piattaforma streaming del mondo ha riconosciuto il suo potenziale e gli ha offerto il ruolo di protagonista in una super produzione internazionale. Proprio come nelle favole, la vita di Avi è cambiata in un attimo. E per sempre. Testament: La storia di Mosè, la docu-serie che racconta l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto e di cui lui è colonna portante, infatti, ha conquistato subito il primo posto delle serie Netflix più viste in 57 paesi del mondo. L’ho incontrato in un bar a Jaffa in un momento cruciale della sua carriera. E della sua vita. Non più anonimo ma agli esordi di un successo internazionale, il perfetto cenerentolo è diventato tutto ciò che ha sempre voluto essere. Non un uomo felice e realizzato. Non un divo un po’ arrogante. Incontro un uomo emozionato, fragile, genuino e decisamente spaventato. Un ragazzo dalla sincerità disarmante, umile quanto il personaggio da lui interpretato nell’acclamata docu-serie. Un mondo interiore dolce e complesso, il suo. Ridendo e parlando, mi insegna a non giudicare mai “il libro dalla copertina”. D’altronde, nonostante il lieto fine, le favole Disney nascondono sempre un passato doloroso.

Avi, quand’è che Netflix ti ha contattato per proporti il ruolo di Mosè?
È stato un momento strano. Ricordo di aver subito pensato che si stessero sbagliando. Che non sono l’attore che stanno realmente cercando. Che non sono adatto. Che non sono capace. Non ho una carriera cinematografica degna di nota. Ho fatto infiniti provini e audizioni per ruoli decisamente minori. Molte volte ho pensato di abbandonare questo sogno per dedicarmi ad altro, poi è arrivata la produzione di Netflix e tutto è cambiato in un attimo. Mi è sembrato troppo strano, facile, troppo bello per essere vero.

In effetti, come sono arrivati a te?
Netflix ha contattato un agente cinematografico israeliano che avevo conosciuto anni e anni fa durante un viaggio in India. La produzione voleva assolutamente che a interpretare Mosè fosse un attore israeliano e lui ha accettato di prestare servizio, proponendo loro decine di attori: il meglio che il cinema israeliano avesse da offrire. Loro hanno respinto tutti. Un attimo prima di rinunciare all’idea di ingaggiare un attore locale, quando già avevano cominciato a cercare altrove, l’agente si è inspiegabilmente ricordato di me. Non parlavamo da anni, eppure gli ero rimasto impresso. Così ho mandato un provino e loro si sono mostrati subito entusiasti. Mi hanno detto: “Sei tu, ti abbiamo trovato”. In meno di una settimana abbiamo firmato il contratto.

Cos’hanno visto in te che tu stesso non eri riuscito a vedere?
Quando il produttore è venuto in Israele per conoscermi, la prima domanda che gli ho posto è stata: “Perché io?”. Lui mi ha risposto che, in qualche modo, la mia incredulità gli ricordava quella di Mosè. Proprio come lui si sentiva inadeguato a compiere la missione, così mi sentivo anch’io. Proprio come lui ha domandato a Dio perché l’avesse scelto, così ho fatto anch’io. Poi mi ha detto che ho degli occhi buoni. Che non importa quanto proveranno a sporcarmi il personaggio sul set, i miei occhi rimarranno sempre buoni. Ecco, queste cose io non le vedevo.

Quando hai capito di essere diventato famoso?
Quando sono tornato in Israele, in seguito a tre lunghi mesi di riprese in Marocco, ho vissuto un periodo di grande crisi. Dopo essere stato trattato come una stella hollywoodiana, scortato in ogni luogo, osannato dal regista, servito e riverito dallo staff, eccomi ripiombato nell’anonimato, incastrato nel mio monolocale a Tel Aviv. Il giorno del lancio su Netflix mi sono allontanato dal cellulare per pochi minuti. Al mio ritorno, non credevo ai miei occhi: migliaia di telefonate, di messaggi, di nuovi followers sui miei profili social. Tutto ciò che ho desiderato, si stava realizzando. Così, ho avuto un attacco di panico. Dopo una vita trascorsa a voler essere famoso, non so se lo volevo più. Mi sono messo a ridere e a piangere come un bambino. Emozione e paura. Non sono uscito di casa per giorni. Ancora oggi ricevo centinaia di messaggi su Instagram e non so nemmeno come rispondere. O se rispondere. Devo ancora capire come gestire la questione. Imparerò, ma intanto tutto mi fa paura.

Cosa esattamente ti fa paura?
Il fatto che ho finalmente qualcosa di bello fra le mani e non voglio perderlo.

Da dove proviene questa insicurezza?
Io sono il più piccolo di famiglia e c’è sempre stata molta competizione tra noi fratelli: chi è il più alto, chi è il più forte, chi è il più veloce. Io perdevo sempre. Ero un bambino strano, con degli occhiali spessi e orrendi da talpa, molto più sensibile rispetto a tutti gli altri. Loro mi prendevano in giro, mi facevano sentire una nullità. Inoltre, mi è sempre mancata una figura paterna. Mio padre è morto quando ero bambino. Come se non bastasse, in età adolescenziale ero già pieno di debiti per scommesse perse. Sono cresciuto in un ambiente umile, fatto di persone semplici che svolgono lavori semplici. Fino a una certa età, non credevo nemmeno di poter fare l’attore. Mi sembrava impossibile. Persone come me non esistevano sullo schermo. Quando mi sono trasferito a Tel Aviv per studiare recitazione mi sono sentito inadeguato. A Dimona mi consideravano l’artista strano e sensibile. A Tel Aviv, invece, ero semplicemente uno zotico provinciale. Ovunque andassi, mi sentivo diverso.

Un po’ come Mosè.
Proprio così. Quando ho studiato il personaggio, mi sono reso conto di quanto fossimo simili. Di quanto non dovessi sforzarmi per riuscire a trasmettere il disagio che anche lui provava.

Come ci si prepara ad un ruolo così iconico e importante?
Ho studiato a fondo il personaggio, con diversi maestri e secondo diverse interpretazioni. L’obiettivo mio e dell’intera produzione era quello di raccontare il Mosè uomo. Ovvero, non rappresentare un eroe coraggioso e privo di difetti, come è già stato fatto in passato, ma un eroe fragile e vulnerabile. Un leader umano, nel senso più semplice del termine. In questa versione il lato psicologico dei personaggi ha ricevuto molto più spazio di quanto abbia ricevuto in passato. Sono loro, i loro sentimenti, i loro conflitti, le loro paure, i veri protagonisti della storia. Non le dieci piaghe e non l’apertura del Mar Rosso.

Cosa ti ha insegnato Mosè su di te che non sapevi?
Ho voluto fare l’attore perché mi sentivo invisibile. Volevo essere riconosciuto e apprezzato. Mosè mi ha insegnato che sentirsi invisibili, talvolta, ci rende visibili agli occhi degli altri. Il suo essere estraneo, è ciò che gli ha permesso di appartenere a tutti. La sua vulnerabilità, era la sua forza. Ecco, vorrei che anche la mia vulnerabilità diventasse la mia forza.

Il rapporto con i tuoi fratelli?
È cambiato, oggi mi rispettano, mi stimano. Mio fratello maggiore mi ha chiamato l’altro giorno e mi ha detto per la prima volta che è fiero di me. Mi sono commosso.

Di felicità, spero.
Vorrei essere felice ma in realtà mi sento in colpa. Non voglio mortificarli. Loro continuano le loro vite semplici e io? Faccio la vita da star emergente? Non voglio. Non posso. Mia mamma invece gira per Dimona come se fosse la regina della città. La fermano per strada. È lei la vera diva della famiglia. Ma in verità, penso a mio padre. Mi è sempre mancato. Ricevo amore da ogni angolo della terra ma io voglio soltanto il suo. Vorrei mi dicesse che è fiero di me. Non desidero altro.