Kafka, l’uomo che voleva abbracciare la vita

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

Non era snob e adorava ridere, cercava intimità e senso della vita, malgrado l’abisso interiore. Era sedotto dal teatro yiddish e dal suo umorismo irriverente. Un mito, contemporaneo e vicino. Esce l’appassionante e monumentale biografia di Reiner Stach: un giacimento di informazioni e una ricostruzione storica unici

 

«Cosa ho in comune con gli ebrei?», aveva annotato Franz Kafka nei Diari già nel 1914, usando volutamente un’espressione da goy. «Cosa ho in comune con gli ebrei? Ho a malapena qualcosa in comune con me stesso», aggiungeva con ironia. Ed eccolo lì un Kafka che non ti aspetti, quello che Reiner Stach racconta nella sua monumentale e “vertiginosa” biografia dello scrittore praghese, scavando col bisturi dello studioso nelle sue idee, giornate, abitudini, una vita terminata per tubercolosi nel giugno del 1924, a quasi 41 anni.

Nel centenario della morte esce oggi il terzo e ultimo volume della sua biografia definitiva, un tour de force esegetico (quasi duemila pagine), decenni di lavoro su documenti inediti, fonti d’archivio, carteggi, testimonianze, analizzati come nessun’altro aveva fatto e che sono oggi una pietra miliare e un riferimento imprescindibile per capire chi fosse Kafka (Reiner Stach, Kafka, Gli anni della consapevolezza, traduzione di Mario Nervi, Il Saggiatore, pp. 796, 46,00 euro). Tutti i dettagli sono documentati, nulla è inventato. La famiglia, la mentalità, il mondo in cui viveva, il clima sociale, l’antisemitismo del suo tempo, la precaria condizione degli ebrei scissi fra integrazione ed emarginazione. E poi il complesso mondo psicologico di Kafka, ricostruito con insolita ricchezza di dettagli, elementi apparentemente marginali ma eloquenti, come lo spunto del biglietto con cui il padre, Hermann Kafka, annuncia il bar mitzvà del figlio nella sinagoga Zigeuner a Praga.

Kafka, si sa, è lo scrittore più studiato, commentato, chiosato, omaggiato della storia letteraria (insieme a Shakespeare). Se la sua opera è sopravvissuta a decenni di bombardamenti esegetici, di interpretazioni religiose, filosofiche, politiche e psicologiche, fino a diventare una icona della cultura Pop lo si deve alla potenza del suo linguaggio e immaginazione. Resta il fatto che l’intera trilogia biografica di Reiner Stach è un giacimento di informazioni unico, una rigorosa ricostruzione storica, sociologica e d’ambiente su un mito letterario inossidabile e sulla di lui opera divenuta la cifra stessa del XX secolo; un viaggio straordinario nel paese dell’anima e del corpo – cartelle cliniche incluse – di Franz (i primi due volumi sono: Kafka – I primi anni; Kafka- Gli anni delle decisioni, Il Saggiatore).

 

Vegetariano e salutista
Ecco allora che Reiner Stach ci racconta di quando Kafka incontra casualmente il celeberrimo Rabbi di Belz in vacanza a Marienbad nel 1916, lo tzaddik-guru circondato dalla sua corte di adoranti chassidim, e lui, Kafka, che prova un divertito scetticismo verso la fascinazione entusiasta per gli Ostjuden nutrita dal milieu intellettuale della sua generazione (Max Brod, Hugo Bergman, Franz Werfel, Martin Buber, Franz Rosenzweig, Gershom Sholem…, tutti yekke, ebrei tedeschi secolarizzati: essi vedevano nei chassidim un ebraismo delle origini, incorrotto, puro, autentico, antiborghese). «Davvero i chassidim vivevano alle fonti dello spirito ebraico e della cultura popolare ebraica?… ballando e pregando, un eterno sabato, una eterna festa di fusione con Dio senza il pungolo di un dubbio o di sentimento tragico…»?, scrive Stach in merito alle perplesse considerazioni di Kafka.

Eppure l’ebreitudine di Kafka è totale, un’identità innervata nelle fibre più profonde, malgrado la famiglia decisamente secolarizzata: Kafka studia l’ebraico (e lo padroneggerà bene), vuole andare in Palestina, fa corsi di agraria e giardinaggio, spinge Felice Bauer a impegnarsi per aiutare concretamente i bambini ostjuden e bisognosi, sceglie di essere vegetariano, è animato da un forte spirito di comunità, viene supplicato da Martin Buber, nel 1915, a collaborare a Der Jude, una rivista per la rinascita del nazionalismo ebraico. «I racconti di K. appartengono ai documenti più ebraici del nostro tempo», annota Max Brod su una rivista. Altri, al contrario, sottolineano che “la sua arte narrativa ha un sapore arcaico-tedesco”. Kafka smentisce entrambe le definizioni e annota, ironico e dolente: «Un caso difficile. Sono un cavallerizzo da circo che va su due cavalli nello stesso tempo? Purtroppo però non cavalco affatto ma sono disteso per terra», scrive, alludendo alla depressività che spesso lo lascia esausto per giorni e privo di immaginazione.

Ed ecco ancora Kafka che si affaccia alla finestra dopo l’influenza spagnola che rischia di ucciderlo: sotto si agita un inconsueto tumulto di folla, siamo a Praga, il 21 dicembre 1918, e il futuro premier Masaryk torna in trionfo dall’esilio americano. Kafka che un giorno si era coricato con 40 di febbre, si alza dal letto un mese dopo con il suo mondo che è andato in pezzi, la rivoluzione è avvenuta, è caduto l’Impero austro-ungarico, è nata la Repubblica cecoslovacca, la popolazione ceca è nelle piazze in piena ubriacatura nazionalista malgrado la fame, la carestia e la crisi economica. I cechi iniziano a perseguitare i tedeschi, gli ebrei e ancor più ferocemente la minoranza ebraica di lingua tedesca a cui Kafka appartiene. Il caos regna e Franz tossisce sempre più, il dopoguerra si è rivelato un mondo ostile, che nessuno poteva immaginare. Osserva i reduci che si trascinano per strada, i mutilati dagli occhi vuoti.

Reiner Stach narra di come il mondo in cui visse Kafka fu completamente spazzato dalle due Guerre mondiali del Novecento. La Prima mise fine all’Impero austro-ungarico e cambiò gli equilibri politici della Praga multietnica, dove per secoli la minoranza tedesca aveva dominato sulla maggioranza ceca. Con la Seconda ci fu lo sterminio della cerchia sociale di Kafka. Tutte e tre le sorelle dello scrittore morirono nelle camere a gas dei campi di concentramento nazisti, dove finirono anche le vite dei suoi parenti e amici.

 

Camminare nella vita, in punta di piedi
Con una trama narrativa asciutta e appassionante, la biografia di Stach mira a rovesciare i luoghi comuni più triti su Kafka, ribaltando il cliché dell’«uomo particolarmente inaccessibile, spiacevole e insoddisfatto della vita». Scopriamo così che Kafka è dotato di un singolare talento per i rapporti umani: non c’è figura di autore del XX secolo, scrive Stach, in grado di suscitare altrettanta simpatia in chi lo conobbe, dai colleghi agli amici più vicini, fino alle donne che lo amarono, le due fidanzate ufficiali e le altre quattro donne con cui ebbe relazioni amorose. Kafka non viveva ai margini della vita, come si crede. La vita gli sfuggiva ma lui voleva abbracciarla, a dispetto del proprio abisso interiore. Kafka, ricorda Stach, ci ha insegnato ad essere umili ed empatici. A camminare nella vita in punta di piedi. Ma amava fare passeggiate, nuoto ed escursioni, non fumava né beveva. Evitava tè, caffè, cibi di carne. Quando rincasava dopo una gita, la famiglia restava stupefatta nel constatare che aveva camminato fino a villaggi così lontani che chiunque altro avrebbe preso la ferrovia. E poi la tematica della sessualità: Kafka non ebbe meno “incontri” rispetto agli altri uomini della sua età. La speranza era che l’amore mercenario impedisse al desiderio sessuale di diventare il focus del matrimonio, scrive Stach. Un Kafka in parte ignoto, amante dei caffè e cabaret, dai “debordanti giri notturni”, che non si preoccupa di fare le ore piccole. Piccoli momenti in una vita sostanzialmente opaca ma anche, dice Stach, segni di una libertà trasgressiva, tesa a scardinare, come la scrittura stessa, il principio di autorità e di potere.

Un saluto sul margine delle labbra
Certo, le fantasie autodistruttive lo tormentavano. “Una gentilezza che si donava e si tirava indietro”, un senso di esclusione “sul margine delle labbra”: le persone che lo incontravano avevano l’impressione che “una parete di vetro lo circondasse”, scrive Pietro Citati nel 1987. Invece, la biografia di Stach sembra voler affrancarsi da questo stereotipo. Ma quello di Kafka rimane comunque “un saluto dall’altra parte del marciapiede”. Un cenno di mano che viene dall’altro lato, quello in ombra. Lui vede figure storte, le disegna, sono allampanate come la sua, nulla può essere diritto nel suo universo, per questo schizza a matita uomini sghembi e angolosi, per questo scrive di chi “non si gonfia”, di chi “non lievita”, l’anima dei suoi personaggi è come la matzà, il pane azzimo pasquale. Kafka ama ciò che è sottile, ama i cavalli, l’animale più adatto per fuggire, nei suoi disegni il cavallo talvolta viene frustato ed è il primo intervento della violenza in Kafka, la violenza sull’animale, come ci fa notare Roberto Calasso nelle sue note nel bellissimo libro I disegni di Kafka (Adelphi, a cura di Andreas Richter, pp. 367, euro 48,00).

Cercava intimità e senso di esistere
Quando si parla della “bizzarria” di Kafka, e che sarebbe “profetica” e “tragica” rispetto a quanto sarebbe accaduto con i lager e col nazi-fascismo, andrebbe tenuto conto del contesto. Kafka era un personaggio sospeso fra vari mondi. Paragonava la situazione degli ebrei integrati e laici alla figura del Centauro (amata anche da Primo Levi): zampe posteriori nell’ebraismo, arti anteriori lanciati in alto, nel futuro, alla ricerca di un posto nella modernità. Nel cuore aveva la lingua yiddish, l’idioma dei nonni: era affascinato dal teatro yiddish e dal suo umorismo irriverente. Non era snob e adorava ridere, cercava disperatamente intimità e senso della vita. Afflitto da un vuoto depressivo, mai dalla noia. Per anni si era sentito rinchiuso nella prigione dell’Io, incarcerato nella provinciale Praga. Scrisse nei Diari: «Fui preso dal desiderio infantile di non tornare mai più nella tana». Questo voleva. E questo alla fine ha avuto. Uscire dalla tana.
Ed è forse ciò che lo rende così contemporaneo e vicino a noi.