Quello dell’operato della Chiesa durante la Shoah è senza dubbio uno degli argomenti più accesi e controversi della storiografia dell’era contemporanea. In particolare, dell’apertura degli archivi vaticani si parla ormai da anni come di un’azione che verrà intrapresa.
E se ne è parlato anche qualche giorno fa, quando il rabbino argentino Abraham Skorka, da tempo amico di Papa Bergoglio, ha confermato la disponibilità del pontefice in merito.
Intanto, nuove analisi su questo delicato tema arrivano da una storica ebrea, Anna Foa, autrice tra l’altro di «Portico d’Ottavia 13», sul rastrellamento del 16 ottobre ’43.
«Gli studi degli ultimi anni stanno mettendo sempre più in luce il ruolo generale di protezione che la Chiesa ha avuto nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista dell’Italia”, ha dichiarato all’Osservatore Romano in un articolo pubblicato ieri. Foa, in particolare, si richiama ai recenti studi di Andrea Riccardi, fondatore della comunità di S.Egidio ed ex ministro per l’Integrazione nel governo Monti.
«Proprio a proposito di Roma -scrive Foa – il lavoro recente di Riccardi ha messo in luce molti aspetti importanti di questa vicenda, dalle modalità con cui fu portata avanti l’opera di ricovero e salvataggio dei perseguitati, che erano tali da non poter essere il frutto soltanto di ‘iniziative dal basso’, ma erano chiaramente coordinate, oltre che consentite, dai vertici della Chiesa, al fatto che essa non si limitava agli ebrei, più a rischio degli altri, ma si estendeva a tutti coloro che erano in pericolo», compresi i gentili romani che nascondevano i concittadini di religione ebraica.
«È vero che ebrei e cristiani avevano convissuto per secoli, tra le mura dei ghetti e nelle antiche giudecche, in Italia e particolarmente a Roma, ma questa convivenza -scrive Foa- aveva raramente coinvolto degli ecclesiastici. Ora, di necessità per l’urgenza della persecuzione, preti ed ebrei dividevano lo stesso cibo», generando una mutua curiosità verso le rispettive abitudini: per esempio, ricorda Foa, le suore di un convento «aggiungevano il lardo alla zuppa comune solo dopo averla distribuita alle ebree rifugiate da loro». Generando, conclude la studiosa, «questa familiarità nuova e improvvisa, indotta senza preparazione dalle circostanze, in condizioni in cui una delle due parti era braccata e rischiava la vita ed era quindi bisognosa di maggior ‘carità’ cristiana».