di Stefania Ilaria Milani
Immaginate tre fratelli. Che siano nati tra Varsavia-Lublino a cavallo del XIX e XX sec. Che siano ebrei, figli d’un rabbino chassidico presidente di Beth Din. Tutti, chi con più o meno successo, scrittori yiddish, traduttori e giornalisti, capaci di racchiudere in un unico genio trino le immaginazioni più potenti, l’ironica mitologia e le parole emotivamente più abbaglianti della storia della letteratura ebraica. Appunto, che raccontino solo quello che conoscono, quello che hanno ogni giorno sotto gli occhi: demoni, maghi e mulini a vento; famiglie e tradizione; un mare di matrimoni; il dualismo impossibile tra malinconia e futuro, ovvero tra desiderio d’integrarsi nella mondana modernità e l’identità delle radici. Che siano stati costretti dalla guerra, obbligati dai genitori, dalle proprie ambizioni a emigrare verso il Nuovo Mondo o nel Vecchio Continente occidentale. Che abbiano perduto nel terribile buio della Shoah l’altro fratello Moishe e la madre Batsheba.
Immaginate una famiglia così. E riuscirete a vedere lo shtetl di Biłgoraj, vicino al Bosco delle Scimmie (in Polonia), in cui i tre fratelli crebbero accumulando tutte quelle vicende di vita quotidiana autobiografiche – di religione, errore, sesso, lotta, discriminazione – ma al contempo universali, i personaggi chagalliani che alcuni decenni dopo popoleranno i loro bei romanzi.
Ecco, questa famiglia ha tre nomi. Il celeberrimo, premio Nobel per la letteratura nel 1978, unico membro americano del National Institute of Arts and Letters a scrivere in una lingua che non sia l’inglese: Isaac Bashevis Singer. Il purtroppo meno popolare autore di Yoshe Kalb, de I fratelli Ashkenazi e anzitutto de La famiglia Karnowski: Israel Joshua Singer. Poi, la semisconosciuta “khassid in gonnella”: Hinde Ester Singer Kreytman (nota come Esther Kreitman), cui figura fu d’indubbia ispirazione per molte delle protagoniste femminili dei sopracitati prosatori.
Isaac è sia lo shlemiel Gimpel, sia il macellatore Yoine Meir, che i dybbuq “emblema di un mondo che non è possibile orientare”. Credente, seguace di Spinoza e Schopenhauer, fu un saggio sensibile che osserva, che suggerisce. La letteratura in Isaac è vita, testimonianza, resistenza all’odio perché stare in silenzio durante e dopo Auschwitz significa non essere umani. Disse: «La cultura ebraica non è una sorta di erba selvatica che cresce per conto suo. È un giardino che si deve curare di continuo».
Di Israel sapremo sempre troppo poco. Morì nel 1944 a causa di un infarto, lasciandoci capolavori rimasti per anni al di fuori dei circuiti letterari. Isaac lo chiamava “il mio maestro” e anche se, per ovvi motivi, non poté riportare lo sterminio, le sue parole gli sono sopravvissute per ricordarci ora un universo scomparso, ora il tragico sogno di David Karnowski d’essere considerato “tedesco tra i tedeschi” prima ancora che “ebreo tra gli ebrei”.
Invece Esther è la Yentl e la Debora dei racconti omonimi, una donna famelica tanto di studio quanto di libertà. Malgrado fu la prima a cominciare a scrivere, i suoi lavori vennero pubblicati in coda ai trionfi fraterni. Epilettica, sofferente nel sapersi bistrattata dai genitori, afflitta da ricorrenti crolli nervosi, Esther “non riusciva a venire a patti con il mondo che la circondava”. Benché si fosse innamorata di un giovane intellettuale comunista, finì per acconsentire a un matrimonio combinato con un tagliatore di diamanti di Anversa, dal quale ebbe nel 1913 il figlio Morris. Le sue memorie, Debora, non solo vengono a completare il quadro familiare inciso dai fratelli nelle opere Alla corte di mio padre e Da un mondo che non c’è più, bensì sono pure l’autobiografia più dolorosamente efficace delle tre.
Così, proprio per conoscere Isaac, Israel ed Esther, martedì 10 giugno è andata in scena nella Sala Grande del Teatro Franco Parenti di Milano La famiglia Singer, una conferenza-spettacolo, diretta da Luca Scarlini con Anna Nogara, lo stesso Luca Scarlini e Elia Schilton, che rappresenta la prima prova ben riuscita di un progetto che nella prossima stagione intende narrare gli avvenimenti di casa Pirandello, Henry James, Mann.
120 minuti d’immagini d’antan, musiche klezmer e letture di stralci dalle maggiori opere dei tre autori yiddish su un palcoscenico gremito esclusivamente di piccole e grandi luci, di piccole e grandi sedie, piccoli e grandi leggii ma grandi, grandissimi attori.