di Vittorio Robiati Bendaud
Il cristianesimo, uscito vincente dagli antichi Concili, risulta svuotato e profondamente insicuro, critico e scettico circa la propria tradizione, che ha sostituito con un generico pensiero woke
È finita un’era, quella dell’Europa cristiana, ossia quella della fede della maggioranza dei cristiani nel loro cristianesimo, persino tra gli esponenti dell’istituzione. La crisi profonda della dimensione simbolica (più che rilevante per una fede che si è sempre tradotta in arte – dalla pittura, all’architettura, alla musica) è evidente, visibile e udibile, da decenni.
In sintesi: siamo di fronte, almeno in ampia parte dell’Occidente ex-cristiano, a un cristianesimo sopravvissuto a se stesso e svuotatosi di sé. E se la Shoah per il cristianesimo è stata suicidaria, laddove i giusti cristiani – dai preti alle suore, dagli operai ai contadini – lo furono nonostante e contro i millenari insegnamenti antiebraici delle Chiese, l’appropriazione cristiana della Shoah assolve oggi non di rado a processi ambigui e finanche insidiosi.
Dopo la Shoah, successivamente alla nascita dello Stato di Israele e nel clima distensivo della laicità occidentale, con anche l’alveo del dialogo ebraico-cristiano, abbiamo dimenticato – o quantomeno sottostimato – l’immenso potere “costruttivo” dell’antisemitismo. Proprio perché dialoghiamo con cristiani (e musulmani), dobbiamo ricordarci -e ricordare loro!- del potere strutturante, come tale calamitico, dell’antisemitismo, che ha informato il simbolico mediterraneo e occidentale in ambito teologico, filosofico e politico. Anzi, ne è stato la condizione di possibilità e lo scheletro. E, se a qualsiasi musulmano o cristiano orientale onesto è ben chiara la forza aggregante dell’antisemitismo, specie nella sua odierna variante antisraeliana, perché ha permesso a molte società panarabe di definirsi e costruirsi in tal senso negli ultimi settant’anni, in Occidente ci sfuggono oggi il portato e la malia di questa forza pericolosa e omicida.
Oggi, ciò che rimane della cristianità è in cerca d’Autore. Il cristianesimo uscito vincente dagli antichi Concili risulta svuotato e profondamente insicuro, critico e scettico circa la propria tradizione che ha sostituito un generico pensiero woke moderato. Resta il problema dell’ebraismo e di quell’insostenibile radice ebraica. Ed è qui che scatta, ancora oggi, specie oggi, la forza strutturante del pensiero antiebraico, a suo modo fondativa.
E, se dopo la Shoah, non si poteva non parlare di Gesù ebreo, ecco l’accento marcato sul fatto che Gesù parlasse però (se ne colga il carattere avversativo!) la “lingua del popolo”, ossia l’aramaico, adagio che assolve a una vecchia doppia strategia: distanziare Gesù dall’ebraico, quindi dal suo popolo e dalla liturgia ebraica; evidenziare un presunto carattere pauperista, comunque oppositivo, laddove però il resto del popolo era, con ogni evidenza, comunque formato da ebrei. Con il distanziamento di Gesù dall’ebraismo e da Israele, eccolo allora farsi biondo e finanche “ariano”, come nei secoli passati, oppure oggi “palestinese”: il processo è il medesimo e rientra nella stessa logica. Un esempio? L’occultamento del valore religioso del digiuno nell’ebraismo e l’importanza per i cristiani di riscoprirne – addirittura! – il senso e la pratica dai musulmani, come proposto recentemente dal papa; da qui il mantra, presunto filo-femminista, secondo cui Islām e cristianesimo condividono la fede nella misericordia di Dio, che è cura materna, secondo la radice semitica r-h-m, da cui rahma, in arabo, tralasciando che esiste la stessa radice, con il medesimo significato, in ebraico, e che fu proprio nell’antica tradizione di Israele che si articolò questa dimensione simbolico-teologica.
Successivamente al 7 ottobre e ai vari eventi bellici, il vescovo Bonny, ordinario della diocesi di Anversa e impegnato ai massimi livelli nel dialogo ebraico-cristiano, ha ribadito che Gesù è “un giovane palestinese morto in croce” e che la lettura ebraica-israeliana dei testi sacri è distante da quella cristiana e con essa incompatibile. Siamo come agli esordi del cristianesimo, in salsa progressista cattolica contemporanea: de-ebraicizzazione di Gesù e incomprensione da parte di Israele delle sue stesse Scritture. Sulla stessa scia il cardinale Ravasi, che rilanciò la vexata quaestio, con un portato simbolico bimillenario di mistificazione e demonizzazione, della “legge del taglione”, anzi della presunta “logica di Lemech”, contestualmente alle azioni belliche israeliane. Perfino la Shoah, se cristianizzata e universalizzata, può essere scippata alle vittime e ai loro eredi, rivolgendogliela contro e accusandoli di genocidio o crimini di guerra.
Insomma: siamo in una fase di cristianesimo profondamente debilitato, in cerca di contenuti, che ha necessità di un punto gravitazionale per strutturarsi, specie in relazione all’avanzata islamica e a un Occidente disorientato. In pochissimo tempo il dialogo ebraico-cristiano è divenuto anticaglia, relitto e fonte di contraddizione. Forse, persino, un errore. Chi scrive crede (e spera) che il dialogo schietto e leale continuerà, ma in modalità carbonare, sottoforma di resistenza, mentre quello ufficiale, diplomatico e accademico è stato polverizzato e ridotto a imbelle ridicolaggine.
Foto in alto: Rav Laras e il Cardinale Martini, esempi di una irripetibile stagione dell’Amicizia Ebraico-Cristiana
(© Archivio Bollettino della Comunità ebraica di Milano)