di Michael Soncin
Una lingua che andrebbe declinata al plurale: c’è quello polacco e quello lituano; è contaminato dal tedesco ma anche dal russo; e ci sono poi tutte le varianti locali e vernacolari. Un’inchiesta tra i “parlanti yiddish” oggi in Italia
«C’è uno humor sereno nello yiddish, una gratitudine per ogni giorno di vita, per ogni briciola di successo, per ogni incontro d’amore. Lo yiddish non è arrogante, non è sicuro di vincere, non pretende né combatte, ma passa sopra, vive ai margini, si defila di contrabbando in mezzo ai poteri della distruzione, comunque consapevole del fatto che il piano di Dio per la Creazione è solo al suo inizio». Con queste indimenticabili parole d’amore per la sua lingua perduta, Isaac Bashevis Singer riceveva a Stoccolma il premio Nobel nel 1978. Ma Singer parlava a nome di tutti gli yiddishofoni del mondo, e di tre generazioni di scrittori che avevano reso grande la storia e la letteratura della yiddishkeit. «Fra tutti gli idiomi parlati dagli ebrei nella diaspora, solo nel caso dello yiddish è sorta una ricca letteratura», affermava il grande yiddishista polacco Chone Shmeruk (1921 – 1997), professore di Lingua e letteratura yiddish all’Università Ebraica di Gerusalemme.
E oggi? Qual è lo stato di salute di cui gode lo yiddish nel tessuto culturale ebraico, internazionale e italiano? Che cosa è diventata ai giorni nostri questa straordinaria “cattedrale linguistica”? E soprattutto: che cos’è lo yiddish? Idioma letterario o vernacolo quotidiano? Residuo del passato, lessico popolare o lingua nobile? Una parlata vibrante o una lingua morta? E quante innumerevoli forme di yiddish esistono? Lingua delle ombre, linguaggio di fantasmi e folletti – come diceva Singer – o idioma vivo e fecondo, il simbolo dell’identità ebraica diasporica?
Ne abbiamo parlato con traduttori, linguisti, attori, giornalisti, rabbini, gente comune che lo studia o alcune volte lo parla in casa. Un’inchiesta che, senza voler essere esaustiva, cerca di offrire uno spaccato – anche emozionale -, del mondo di parlanti, studiosi, innamorati di questa splendida lingua che fu lo specchio e il riflesso di un mondo cangiante che non esiste più, cancellato dalla Shoah. Ma che oggi è oggetto di una rinascita davvero sorprendente e di un interesse sempre più vivo e “militante”. Dalla traduzione in yiddish di Harry Potter alle numerose riedizioni e traduzioni dei classici della letteratura yiddish (Chaim Grade tradotto per la prima volta in italiano, Israel e Isaac Singer, Ester Kreitman, riproposti anche con inediti), e poi meeting, incontri, il boom delle iscrizioni ai corsi di lingua per impararlo, in Italia e nel mondo.
Yiddish, un fenomeno culturale, anche italiano
«L’Italia in particolare è molto legata storicamente allo yiddish. I primi libri in questa lingua furono stampati e pubblicati proprio qui nei primi anni del XVI secolo. In quel periodo tra il Quattrocento e il Cinquecento si stabilirono nel nord Italia ebrei ashkenaziti provenienti dalla Germania, in prevalenza commercianti; ma tra questi vi erano anche stampatori che operarono nelle stamperie di Venezia e della Serenissima, non a caso dei grandi centri di stampa ebraica e yiddish in Italia», spiega Marisa Ines Romano, docente di Lingua e Letteratura Yiddish all’Università di Bari. «Tra i più noti protagonisti di quel tempo c’era un personaggio straordinario, artefice dello sviluppo della stampa yiddish ed ebraica: Elia Levita (1469 – 1549). Veniva da Norimberga, visse tra Padova, Roma e Venezia. Un grande umanista del mondo ebraico, autore del primo dizionario trilingue di ebraico-yiddish-latino. A Roma strinse amicizia con il cardinale Egidio da Viterbo (1472 – 1532), fatto insolito per quei tempi. Levita gli insegnava l’ebraico e Egidio il greco», racconta Romano. L’Italia detiene inoltre un altro incredibile primato: quello di aver pubblicato, nel periodo del Rinascimento, il primo romanzo in yiddish, Bove Bukh. «Si tratta della versione italiana di un romanzo cavalleresco francese intitolato Bovo d’Antona, scelto e trascritto da Elia Levita con un adattamento in yiddish occidentale», spiega Marisa Ines Romano. Esistono allora punti in comune tra i due idiomi, yiddish e italiano? «Il legame filologico-linguistico che vi è tra lo yiddish e l’italiano precede l’esistenza stessa di entrambe le lingue. Prima dell’anno Mille, ebrei italiani provenienti dalle Puglie erano arrivati in Renania, il primo nucleo dell’ebraismo ashkenazita. È proprio questo uno dei fenomeni che ha fatto sì che nello yiddish orientale esistano parole di origine italo-romanza. A dire il vero, non si può ancora parlare di italiano, visto che non esisteva ancora e tanto meno lo yiddish. Si tratta di una traccia dell’origine italiana dei primi ebrei ashkenaziti nella parlata del tedesco medioevale che un giorno diventerà lo yiddish. Ci sono decine di vocaboli che testimoniano questo lungo processo. Per esempio la parola bentshn che deriva dall’italiano benedire (benedicere nella forma antica), o del sostantivo milgrom da melograno e così via…», spiega il linguista Cyril Aslanov, spiegando i possibili punti di contatto tra i due idiomi.
Tuttavia, dopo Elias Levita e i fasti del Cinquecento, cala l’oblio. A quando allora risalgono le prime traduzioni in italiano? «Agli anni Venti del Novecento, in pieno fascismo, con l’editore Angelo Fortunato Formiggini, personaggio chiave nel mondo dell’ebraismo italiano, morto suicida come atto di protesta contro il fascismo. È stato il primo a tradurre e proporre opere dei classici yiddish, libri di ottima fattura. Marienbad di Sholem Aleichem fu uno dei romanzi pubblicati», racconta Romano.
Sempre in fatto di traduzioni, Anna Linda Callow pone l’accento su che cosa comporta tradurre un testo yiddish in un’altra lingua, ad esempio l’italiano. «Le traduzioni sono sempre dei compromessi. Com’è noto lo yiddish ha tre costituenti: la parte germanica, quella ebraica e quella slava. Più un autore fa leva su queste componenti più questo gioco andrà perduto. Per esempio, la scrittura di Sholem Aleichem è piena di queste incursioni, ma il suo genio è tale da farci apprezzare i suoi testi anche in traduzione. Chaim Grade invece non fa uso di questo registro e ha altre priorità, è più concentrato sull’intreccio, sulla trama, sulle descrizioni naturali o urbane», spiega la traduttrice. «Sovente – prosegue Callow – gli autori yiddish sono stati trasposti dall’inglese all’italiano semplicemente perché non c’era nessun traduttore disponibile dallo yiddish. Nel caso di Isaac Bashevis Singer invece è stata una scelta dell’autore stesso, poiché Singer volle esistere in inglese. Aveva inserito una clausola sul suo lascito: i suoi lavori dovevano essere tradotti dall’inglese», il mio secondo originale, come lo chiamava lui, versioni anglofone che lui stesso elaborava genialmente e dava alle stampe.
Se tradurre non è un processo scontato, né una semplice equivalenza di significati, che cosa vuol dire allora parlare lo yiddish, riappropriarsene scavando nei meandri della propria infanzia o addirittura impararlo ex novo? «Parlare il vero yiddish non è questione di grammatica o sintassi, rappresenta piuttosto una postura esistenziale, un certo modo di pensare, una visione del mondo. Sono figlio di un ebreo polacco, un tipico galiziano, che però non ha voluto insegnarmi lo yiddish. Una scelta dovuta forse a causa del dolore del suo mondo cancellato, sentimento comune a molti sopravvissuti ed esuli che abbandonarono le terre natie. Da adulto ho poi ripreso questa lingua, riappropriandomi dei suoni dell’infanzia. L’ho fatto presso la Bibliothèque Medem, a Parigi, dove lo yiddish gode di grande impulso e sviluppo», racconta Haim Burstin, professore di storia all’Università Milano-Bicocca. «Tornando al discorso iniziale, lo yiddish non lo s’impara sui banchi dell’università; saperlo non significa conoscerlo. È una lingua di pancia, un lessico degli affetti casalinghi e domestici, è un modo di vivere, un parlato. Come dice Yitskhok Niborski, lo yiddish è una dimensione dell’anima», sottolinea Burstin.
Un idioma multisensoriale che nella parlata permea tutte le aree percettive dell’essere umano, specie la gestualità, tanto da essere “passata” nel cinema, teatro e letteratura americani. Insomma una lingua che, come il cholent, riunisce un insieme unico di ingredienti. «Recitare in yiddish è un mix di modi di fare, battute, mimiche, espressioni facciali. Il teatro yiddish si caratterizza per un modo di gesticolare peculiare, diverso dagli altri. Per certi versi, somiglia ai modi in uso nei paesi mediterranei, più che a quelli del nord-est Europa: un italiano che si recava in Polonia durante gli anni Settanta-Ottanta del XX secolo, veniva subito scambiato per un ebreo», commenta Olek Mincer, attore nato a Leopoli, una formazione al Teatro Statale Ebraico di Varsavia, che oggi vive in Italia. Quale differenza quindi tra gesticolazione italiana e yiddish? «Per un italiano parlare con le mani significa esprimere parole, persino concetti. In yiddish non è così: le gesticolazioni servono ad appoggiare e accompagnare il parlato, a enfatizzarlo, per conferire maggior carica espressiva a quello che stai dicendo a voce. A volte anche in italiano è così ma in yiddish il gesto della mano non ha mai un senso semantico», specifica Mincer.
E che dire della capacità di questa lingua trivalente di regalare al mondo letteratura e poesia tra le più alte? Toccante la testimonianza di Wlodek Goldkorn, giornalista e scrittore originario dalla Polonia. «È la mia lingua del cuore, la più cara al mondo. È una lingua bellissima, specie nella poesia, con poetesse bravissime: sa esprimere un’infinità di elementi grazie ai suoi tre registri linguistici che la rendono unica. Personalmente, la trovo più bella nella poesia che nella prosa».
Una lingua che oggi è protagonista di un autentico revival culturale – ivi compresa la musica Klezmer – un exploit anche in Italia, sebbene qui non ci siano enti così importanti come quelli di Parigi o New York. «Lo yiddish è una lingua culturalmente viva, certamente di grandissima tradizione religiosa, ma anche di grandissima cultura secolare, che ha ancora molto da dire. In Italia se ne stanno interessando un numero crescente di persone». A dirlo è Roberta Ascarelli, germanista, docente di letteratura tedesca all’Università di Siena, presidente dell’Associazione di studi ebraico-tedeschi Ayn-t, associazione di nascita recente con focus sulla letteratura ebraico-tedesca, yiddish e ebraico-polacca.
In ambito accademico, a rappresentare un’autentica novità è l’istituzione oggi del primo corso di yiddish all’Università di Genova, tenuto dalla professoressa Laura Quercioli, docente di Letteratura Polacca e profonda conoscitrice della yiddishkeit e dell’Ostjudentum. «I corsi online e su zoom hanno sicuramente aiutato ma ciò che mi ha stupito è stato avere d’emblèe più di 20 iscritti, che non è poco. Con un corso generale di sole 18 ore sulla letteratura e la lingua gli studenti hanno imparato con facilità a leggere e scrivere alcune parole in yiddish», commenta Quercioli. E all’Università di Bari, Marisa Ines Romano – che insegna yiddish da 12 anni -, racconta che se inizialmente aveva cinque studenti, quest’anno è arrivata a oltre 180 iscrizioni, con un corso di sei crediti. «Sempre per l’insegnamento dello yiddish, ho appena sottoscritto altri due contratti con l’Università di Foggia e di Udine. Ho studenti di tutte le provenienze, anche arabi, curiosi di imparare lo yiddish. Per me tenere viva la yiddishkeit è ormai uno scopo di vita!».
Il valore dello yiddish per il mondo ebraico osservante
Oggi lo yiddish continua ad esistere come lingua quotidianamente parlata tra molti ebrei ultraortodossi, ovvero tra coloro il cui stile di vita è indissolubilmente connesso alla pratica delle 613 mitzvot. Gruppi che considerano se stessi come preziose scintille sparse nel mondo e che si ha occasione di incontrare nei quartieri ebraici di Parigi, a Stamford Hill a Londra, a New York e in Israele. Perché preziosi? Perché conservano quel che è rimasto ai nostri giorni dei nativi parlanti yiddish, dopo lo sterminio. Un yiddish residuale ma vivo, una lingua-testimone parlata in ambiti haredì o chassidici, come ad esempio emerge dalle serie Netflix Shtisel e Unorthodox, o dai film Menashe – Yiddish in Brooklyn, diretto da Joshua Z. Weinstein.
Una presenza – quella dei parlanti yiddish – esistente oggi anche nella realtà delle comunità ebraiche italiane, sebbene in nuclei minori.
Chabad e yiddish… Più frizzanti della Coca-Cola
«Prima di tutto lo yiddish è importante perché è la lingua del Rebbe e per noi è fondamentale capire e parlare nella lingua che parlava lui», afferma Rav Sendi Wilschanski (per Rebbe si intende Menachem Mendel Schneerson – 1902/1994-, il settimo Rebbe del movimento Chabad-Lubavitch). Rav Wilschanski vive a Milano ma tra le pareti domestiche e in famiglia si esprime in yiddish. «Sono nato in Israele, ma i miei nonni provenivano da Russia e Ucraina, infatti lo yiddish che parlo con mia moglie e i miei figli è una fusione della variante russo-ucraina».
Per Wilschanski un patrimonio da tramandare da una generazione all’altra. «Parlarlo con i bambini è importante, è la goldene keit ossia il mantenere la catena d’oro della tradizione. Siamo Chabad-Lubavitch da oltre sette generazioni, sia da parte mia sia di mia moglie. I nostri antenati erano chassidim del primo Rebbe di Lubavitch». Per Wilschanski non è perciò storia di tempi andati ma un continuo e presente divenire. «Quando lo parliamo a casa, i miei figli sentono il collegamento con la dimensione trascendente e con il Rebbe: e questo li rafforza. Saranno loro a proseguire questo cammino e a prendere il testimone», racconta. Tuttavia, non sempre i Chabad parlano yiddish poiché non tutti sono ashkenaziti. «Molti diventano Chabad da adulti, come scelta consapevole, non per nascita; ad esempio i sefarditi di Marocco e Tunisia che ovviamente non lo parlavano nelle famiglie di origine». E così, i ragazzi neo-chassidim che frequentano le Yeshivot lo apprendono progressivamente, anche perché i libri del Rebbe sono in yiddish sebbene esista la traduzione in ebraico. «Ci sono due cose che si trovano dappertutto: Chabad e Coca-Cola. Entrambi sono neri e sono frizzanti, pieni di energia. E di entrambi nessuno conosce il segreto!», risponde con vivace ironia Wilschanski.
È la mia mameloshn
«Quand’ero piccolo mia bisnonna usava parlarmi in yiddish, tenendomi tra le braccia. Continuò fino alla sua scomparsa, io avevo poco più di due anni. È un episodio che mi ha raccontato mia nonna, visto che mia madre aveva scelto di parlarmi in italiano». A raccontarlo è Lorenzo Rosenblum Testa, romano, 23 anni, studente di Giurisprudenza, appartenente alla Comunità dei chassidim di Bobov. Un anello di trasmissione lontano ma potente visto che è alla bisnonna materna che oggi Lorenzo deve la conoscenza dello yiddish: lei era certa che al nipote sarebbe rimasta nel cuore. E così è stato.
Un’autentica mameloshn (lingua madre) nel senso affettivo del termine, rimasto nascosto nei bui recessi dell’infanzia di Lorenzo e poi riemerso, dopo aver vissuto per un anno ad Anversa. «Ormai lo parlo al livello di prima lingua e sicuramente lo parlerò anche con i miei figli: è uno yiddish ungherese-galiziano, come quello delle famiglie rabbiniche da cui discendo». Yiddish anche come mezzo per preservare la fede. «Lo yiddish è stato un modo – specie nella Comunità newyorkese di Satmar – con cui i superstiti della Shoah hanno creato una sorta di bolla in cui si sono chiusi per conservare l’identità ebraica e proteggersi dall’assimilazione».
Immagine in alto: Vladimir Semyonovich Lyubov (Lubarov), pittore e illustratore russo nato nel 1944, dalla fine degli anni ‘90 inizia a dipingere la serie “Felicità ebraica”, dedicata alla nonna Sonya.