di Laura Brazzo
Era una conversazione come tante, una di quelle che con Liliana Picciotto, di questi tempi, facciamo tutti i giorni: il giorno della memoria, quel che si fa e quel che si potrebbe fare, gli incontri, le mostre… Ci stavamo scambiando qualche idea sul discorso da tenere giovedì mattina al Memoriale della Shoah di via Ferrante Aporti, e fra una cosa e l’altra, ad un certo punto, non ricordo nemmeno più come e perché, Liliana mi dice: “e pensare che quel posto l’abbiamo scoperto noi…”
“Come, scusa?” la interrompo subito. “Cosa vuol dire ‘l’abbiamo scoperto noi’?” le chiedo cadendo dalle nuvole.
“Ma? non lo sai? mi risponde cadendo a sua volta dalle nuvole e sbarrando gli occhi. “Binario 21 l’abbiamo scoperto io e Marcello [Pezzetti]!”.
“No, non lo sapevo” rispondo quasi mortificata. “Ma quando?! Come?!”
Lavoro al Cdec ormai da diversi anni, ma di questa storia proprio non avevo mai sentito parlare. Del resto, dico tra me e me, come posso conoscere certe storie se nessuno me le racconta? Se nessuno le scrive! (ho scoperto poi, che in realtà un breve cenno a questa “scoperta” lo ha fatto Marcello Pezzetti nell’introduzione al suo “Il libro della Shoah italiana”; ma leggendolo, confesso, curiosa delle storie dei testimoni, avevo tralasciato le “solite” introduzioni …). Ma, in quel che mi stava dicendo Liliana, oltre al “non sapere”, ciò che mi colpiva era il fatto che non mi ero mai interrogata sul “come”. Insomma avevo dato tutto per scontato! Non mi aveva mai sfiorato il pensiero che un argomento “di tutti i giorni” come “Binario 21” – di cui io stessa talvolta mi ero trovata e mi trovo tuttora a parlare – dovesse essere “scoperto”. Esiste, tutti lo conoscono: come era possibile che un posto così fosse rimasto nascosto, al punto da dover essere “scoperto”? Sono stata ingenua a pensarlo, anche perchè il suo venire alla luce è stato tutt’altro che scontato… Arrivata a quel punto – e a quella consapevolezza – non mi restava altro che farmi raccontare da Liliana come erano andare le cose. E così è stato.
“Io e Marcello stavamo cominciando a fare le prime interviste filmate ai testimoni. Era il 1995. Volevamo farli parlare non più solo nelle loro case, ma anche nei luoghi che li avevano segnati per sempre: il carcere, il campo di Fossoli, le stazioni da cui erano partiti per Auschwitz caricati dentro vagoni per il bestiame.
Per settembre avevamo in programma di filmare l’intervista a Teo Ducci; pensammo di girarla alla Stazione Centrale.
Marcello a quell’epoca era in contatto con un ex funzionario delle Ferrovie, Salvatore Vitiello. Quando fu il momento, gli parlò della nostra idea per l’intervista a Ducci e Vitiello gli consigliò di fare le riprese alla Stazione Merci di Lambrate. Lì, diceva Vitiello, c’erano dei vagoni per il trasporto del bestiame che risalivano agli anni ’40. Per le riprese, pensava, poteva fare al caso nostro. Andammo a fare un sopralluogo, ma ci rendemmo conto quasi subito, che non era quello il luogo che stavamo cercando, quello della partenza dei convogli per Auschwitz. I nostri “indizi” portavano altrove.
Giuseppe Di Porto, un romano arrestato a Genova e poi trasferito a a Milano, ci aveva parlato di un luogo buio, nascosto; e poi ci aveva parlato di alcune colonne dietro le quali per un momento aveva pensato di nascondersi per poi fuggire…
Così, fidandoci del nostro fiuto – eravamo proprio dei segugi… – e dei nostri “nostri” indizi tenemmo aperto il “dialogo” con Vitiello. Questi, un giorno, ci disse che in effetti alla Stazione centrale c’era un sotterraneo, un luogo semi-abbandonato, un tempo utilizzato per il carico del bestiame… Lo convincemmo a mostrarcelo: attraverso un passaggio che partiva dai binari attuali della Stazione ci portò nel sotterraneo.
Quando arrivammo, la scena che ci trovammo di fronte fu spettrale: sembrava di stare in un mondo parallelo, una città sotto la città: buio, porte e porticine ovunque, locali dismessi, polverosi, altri che sembravano ancora popolati – chissà da chi! Marcello ed io eravamo senza parole. In quel posto da brividi, i nostri conti cominciavano a tornare: il buio, le colonne, l’elevatore…. capimmo finalmente da cosa derivava quella specie di ‘sommovimento’ del vagone di cui ci avevano parlato alcuni testimoni: doveva per forza essere lo scuotimento che sentivano quando dal sotterraneo il vagone veniva trasportato verso l’alto, verso il vero binario della partenza.
“Ma come avete fatto a capire che si trattava effettivamente del posto descritto dai testimoni? quello in cui erano stati ‘caricati’?” chiedo a Liliana.
“Le descrizioni dei testimoni ci avevano portato sulla buona strada. Ma, certo, avevamo bisogno di qualcosa di più, di una ‘conferma’. Chiamammo Liliana Segre, le parlammo del sotterraneo in cui ci aveva condotto Vitiello e le chiedemmo di venire con noi a vederlo. Era settembre, forse ottobre. Io avevo già intervistato Liliana nella sua casa; mi aveva raccontato del viaggio in camion da San Vittore verso la Stazione, mi aveva descritto il tragitto: via Filangeri, il centro, la via della sua casa, via Ferrante Aporti… poi, un luogo buio.
Liliana Segre avanzò lentamente nel sotterraneo, si guardava intorno e via via che passavano i minuti sembrava riconoscere quel luogo un pezzettino per volta – e lo stava riconoscendo! Mentre camminava e osservava, annuiva e diceva ‘si, si, si’, e alla fine, ‘è proprio questo!’ .
Marcello ed io avevamo avuto la conferma che ci serviva: avevamo finalmente scoperto dove erano stati caricati le centinaia e centinaia di deportati partiti da Milano per Auschwitz”.
Quel che è accaduto poi, è storia che tutti conosciamo – anche io!
Ho pensato però che ricordare l’inizio, la preistoria del Memoriale, fosse importante, specialmente ora che quel sotterraneo buio si sta trasformando in un luogo “illuminato”. Ma ho anche ritenuto di rendere giustizia per una volta al lavoro dello storico, di colui cioè che giorno dopo giorno, spende le sue energie – e i suoi fondamentali interrogativi! – al solo ed unico scopo di ricostruire e riportare alla luce, un tassello dopo l’altro, verità nascoste, o tenute nascoste, che poi diventano patrimonio collettivo e condiviso – proprio come è successo per il “Binario 21”.