di Ilaria Ester Ramazzotti
«Fin da quando sono nato, mio padre aveva deciso che non ricevessi alcuna educazione religiosa. Voleva valorizzare la mia identità italiana frequentando la scuola statale italiana a Tunisi». Così racconta Elia, che qui apre il suo cuore e racconta vicende personali, che rispecchiano la vita degli ebrei tunisini
«Qual è, secondo Elia Boccara – storico, scrittore, uomo dalle mille avventure – il senso della vita? Un percorso, un cammino spirituale o esistenziale? Oppure una ricerca continua? C’è mai un approdo?
«La vita è sul nascere soggetta all’influenza dell’ambiente, ad esempio dei genitori, spesso del padre in modo prevalente, ciò che chiamerei il fenotipo. Contemporaneamente siamo soggetti a determinismi di carattere genetico. Nell’ambito dei vari determinismi può nascere un progetto di vita comunque tributario della saldezza più o meno forte della cornice ambientale. Peseranno in modo più o meno forte sia la componente sentimentale, sia quella sociale. Io sono giunto alla convinzione che non c’è un ‘arrivo’ individuale, una cosiddetta immortalità dell’anima: attraverso la comunicazione e i rapporti interpersonali i nostri effimeri traguardi sopravvivono in coloro ai quali li abbiamo trasmessi e nella misura in cui saremo riusciti a lasciare concrete tracce del nostro passaggio. Si pone il problema del possibile inserimento in un determinato ambiente sociale riuscendo a evitare i casi di emarginazione, ad esempio l’emarginazione dovuta all’antisemitismo, ma anche di un isolamento dovuto all’immigrazione solitaria con un carico identitario molto particolare rispetto alla diversità locale. La vita comunque è un tentativo di ricerca continua che non comporta nessuna finalità predeterminata. Il successo dei nostri progetti è affidato al caso».
Come si mischia il nostro cammino individuale con quello degli altri e dei nostri famigliari? Che cos’è l’identità? La nostra identità di esseri umani è personale o collettiva?
«Il problema del rapporto tra il cammino individuale e quello dei vari collettivi in cui siamo inseriti è legato sia al periodo storico, sia al gruppo geografico cui ci si riferisce, sia ai casi particolari. Esisteva una regola generale per cui il capofamiglia di sesso maschile esercitava una supremazia legale. Mi fermo un momento sulla situazione di quegli ebrei cui appartengo, i mercanti di origine iberica, convertiti a forza, poi fuggiti per tornare all’ebraismo prima a Livorno, poi a Tunisi. Prendiamo l’istituto del matrimonio: veniva deciso dal padre basandosi principalmente su criteri legati alla propria attività commerciale. Il criterio principale era la situazione etnica del giovane. Citerò l’esempio del matrimonio di mia madre. Raggiunta l’età di circa diciassette anni (siamo nel 1927) conobbe un giovane sionista di origine lituana, seguace di Jabotinsky, che era venuto a Sfax per fare conferenze a favore di una possibile aliyà degli ebrei del luogo. Mia madre Zezette se ne innamorò e si innamorò anche dell’ideale sionista. I due giovani avrebbero desiderato di sposarsi. Ma della famiglia di lui, sperduta nella lontana Lituania, nulla si sapeva. Alla fine mia madre sposò mio padre, Giorgio Boccara, un lontano cugino: si sapeva “come nasce”.
Circa il concetto d’identità io lo considererei in funzione dell’esigenza o meno di riferimento storico. Mentre nel presente ognuno individua più facilmente il gruppo socio-culturale di cui fa parte, gli sconvolgimenti storici che hanno prodotto abbandoni forzati dei luoghi natali hanno avuto altre gravi conseguenze psicologiche. Io sono nato in Tunisia da una famiglia di origine ebraica livornese, ignorando una precedente origine iberica con conversione forzata dei miei antenati. In seguito all’Unità d’Italia seguita dall’ottenimento della nazionalità italiana, mio padre mi trasmise l’amore per l’Italia a scapito sia delle origini ebraiche, che mi costrinse a trascurare, sia del sionismo con la successiva nascita di Israele che non approvava (contro le mie personali convinzioni). Andai quindi a studiare in Italia come desiderava mio padre, mentre la maggior parte degli ebrei italiani di Tunisi si stabilirono in Francia.
La sorte poi non mi aiutò: a Roma mi trovai solo con in braccio una bambina pochi giorni dopo la nascita. Tornai a Tunisi dai genitori non ancora emigrati non avendo a Roma altri parenti che mi aiutassero ad allevare la bambina. Tornai solo cinque anni dopo in Italia, quando conobbi a Milano la mia seconda moglie. Soffrivo di solitudine ambientale. Il mondo ebraico milanese è molto diverso da quel gruppo di Tunisi di cui facevo parte. Insegnavo francese, appassionandomi per la letteratura francese, senza soddisfazioni circa la carriera, privo come ero di qualsiasi appoggio.
A cinquant’anni riaffiorò la lacuna religiosa: mi buttai a capofitto nello studio della nascita del cristianesimo e scoprii la persona di Gesù. Frequentai la Chiesa Valdese e divenni molto amico del pastore Thommy Soggin. Ma per me Gesù è un uomo ed è soprattutto ebreo. Dai valdesi imparai l’importanza della critica biblica, ma la fede cristiana non faceva per me. Approfondii lo studio dell’apostolo Paolo e la ricerca pura, esente da vincoli di carattere mistico, mi diede qualche soddisfazione. Ero però ‘senza casa’. Mi iscrissi alla Comunità ebraica, anche se non mi soddisfaceva per il suo dogmatismo. Sono ebreo, al di là di ogni carattere religioso: nella storia, nella cultura, nel legame con Israele. Feci un ultimo tentativo con l’ebraismo riformato, poi, a settant’anni, proprio quando stavo per gettare la spugna, apparve a Parigi il libro di Lionel Lévy La Nation Juive Portugaise – Livourne, Amsterdam, Tunis – 1591-1951. Così incontrai la mia identità.
La rivelazione dell’origine iberica comportava una spiegazione del motivo per cui mio padre era così freddo rispetto all’osservanza religiosa, mentre la facilità con la quale, dopo secoli di emarginazione, gli era stata accordata la nazionalità italiana, con tutti i diritti civili di cui godevano i non ebrei, faceva passare in primo piano il suo patriottismo. Non si rendeva conto del fatto che la sua debole enfasi religiosa aveva anche origine in quel secolo in cui i suoi antenati Boccara erano stati convertiti a forza, rimanendo poi per un secolo in una situazione ambigua e aperta ad ogni esito. A me invece il libro di Lionel Lévy aveva aperto gli occhi. Eravamo de facto dei ‘nuovi ebrei’ e, fondando nel 1710 a Tunisi una nuova congregazione, separata da quella più numerosa degli ebrei indigeni, adottavamo sulla carta un ebraismo rimasto ufficialmente ortodosso, ma praticato in modo liberamente differenziato. Quel periodo di incertezza iniziato nel 1497, anno della nostra conversione forzata in Portogallo, poi terminato con la fuga verso terre più accoglienti, ci aveva condotti verso una modernità che comportava una identità del tutto personale. Ad Amsterdam le autorità politiche avevano accolto gli ebrei a condizione però che si ponessero tutti sotto l’autorità dell’ebraismo normativo: non era permesso così negare l’immortalità dell’anima o l’esistenza di Dio. Nella segretezza dell’ambito casalingo si poteva però preservare il proprio pensiero, a condizione che nulla filtrasse all’esterno. Uriel da Costa che teneva al fraterno legame comunitario e, contemporaneamente, pretendeva di affermare senza censurarle tesi vietate dal pensiero ufficiale, si suicidò, mentre Spinoza, che si era posto volontariamente fuori dalla comunità stessa, esprimendo a voce alta il proprio eretico pensiero, affrontò con coraggio la solitudine cui la violenza con cui venne espulso lo condannava».
Dov’è il confine tra ciò che siamo come individui e l’identità che ci viene data dal gruppo di appartenenza?
Accanto alla nostra personale base identitaria, proviamo il bisogno di situarci anche naturalmente nell’ambito di un nostro gruppo di appartenenza. Citerò il mio esempio. A Tunisi facevamo parte di un cosiddetto gruppo livornese, suddiviso a sua volta a seconda della nazionalità italiana o francese, che non impediva i reciproci matrimoni, cui i francesi dominati dalla famiglia Valensi non potevano fare a meno perché erano pochi, mentre chi abbondava erano gli italiani. Fu così che io con quel padre che mi trovavo con simpatie fasciste (in realtà unico modo a Tunisi di dimostrare la propria italianità) dovevo far finta di ignorare che la mamma di papà era figlia di Raymond Valensi, ebreo numero uno, oltre che grande notabile ed esponente della presenza francese in Tunisia, accanto al quale noi eravamo molto piccoli. Quale sarebbe stata la sorte di questa realtà quando dopo l’indipendenza della Tunisia la totalità di questa struttura fu costretta ad emigrare? In una vasta proporzione le varie componenti presenti a Tunisi emigrano in Francia, e tra queste la quasi totalità degli ebrei italiani ormai fagocitati da un fascino che attirava queste immigrazioni come una calamita. Quasi nessuno degli ebrei italiani venne in Italia: tra i pochi io stesso e per questo motivo mi sentivo molto solo a Milano, per l’estrema diversità tra la mia ritrovata identità marrana alimentata da approfonditi studi e la diversità degli altri».
Nessun rimedio a questa solitudine? Lei ha scritto libri.
Dopo un lungo susseguirsi di falliti tentativi dovuti all’impossibile soffermarmi in porti in parte insoddisfacenti, iniziò un ventennale percorso che si pose sotto il segno di un nuovo più ampio itinerario. Rivalutai la breve esperienza nel clan valdese, in particolare la fortissima amicizia col pastore Thommy Soggin. Fondamentali furono anche la limpida figura di Gioachino, l’indimenticabile Ugo Gastaldi e la solida amicizia di Maria Girardet, vedova di Thommy. Alcune altre persone, grazie ai miei scritti e ai miei libri, si avvicinarono a me: fra queste Franca Cecchinato, che ha fatto le copertine della maggioranza dei miei libri, e Pier Cesare Ioly Zorattini, con i suoi studi sulle Inquisizioni. Ma ormai non sono più semplicemente milanese: abitai per parecchi significativi periodi in Francia, ponendo rimedio a una mia iniziale solitudine. A ciò contribuì mia madre rimasta vedova a Parigi, dove feci anche studi e ricerche nelle varie biblioteche. Questo per una decina d’anni, fino a quando negli ultimi due anni della sua vita accolsi mia madre a Milano».